Agorà

Parigi. Cubismo, così Braque vince su Picasso

Maurizio Cecchetti venerdì 2 novembre 2018

Georges Braque, «Le Guéridon» (1911, particolare)

La mostra dedicata al cubismo dal Centre Pompidou(fino al 25 febbraio), scrive in catalogo Brigitte Leal, che con Christian Briend e Ariane Coulondre, ne è curatrice, «vuole presentare una visione attuale del cubismo alla luce delle ultime interpretazioni». A me viene in mente, subito dopo le prime opere raccolte nella sezione “Vers le cubisme” – dove si va dal Cezanne che comincia a scheggiarsi nelle forme di ritratti come quello di Vollard del 1899, all’esotico primitivismo di Gauguin, alla scultura tribale – che il primo a scrivere con acuta pertinenza della Negerplastik nel 1915, il pensatore e storico dell’arte Carl Einstein, parla a proposito delle maschere africane di «estasi immobile». La fissità dell’oggetto sacro condensato in una forma plastica che fa volare lo spirito e quasi consente di osservare fuori da se stessi ciò che siamo e lo spazio in cui esistiamo.

A questo aderisce Picasso quando tra il 1906 e il 1907 comincia a lavorare di disegno per catturare l’essenza dinamica di ciò che è eminentemente statico? Il volto – la sua mobilità interiore – diventa maschera in quanto forma “altra” che aggira la fisiognomica e enfatizza la forma come espressione di un modo nuovo di vedere. L’approdo sono Les demoiselles d’Avignon, un quadro d’esorcismo dirà Picasso. Ma si tratta di capire: a quali demoni si applica il rito? Perché l’artista sente il bisogno di rivolgersi a un’antropometria tribale, in particolare nei volti delle cinque figure femminili? Sarà anche esorcismo, ma ancora non è cubismo. Lo spazio è scolpito con l’accetta; e poi la scelta dei colori – il rosso in particolare che rimanda al fuoco, al sesso femminile, alle mitologie arcaiche (Eliade ha scritto molto su questo) –, e la permanenza simbolica delle forme, per esempio nella natura morta in primo piano, con l’anguria e l’uva.

Sul quotidiano “Le Monde” alla fine di settembre è uscito un articolo che registrava una sorta di Picassomania da parte dei musei francesi, segnalando che tra Parigi, Marsiglia, Vallauris e altre città erano in corso una decina di mostre dedicate all’artista di Malaga. Mi sono chiesto, recentemente, se sia in atto un cambio di paradigma critico-mercantile nelle graduatorie dell’arte contemporanea: l’anniversario dei cinquant’anni dalla morte di quello che era considerato fino a ieri l’artista più influente del XX secolo, Marcel Duchamp, è trascorso in Francia praticamente sotto silenzio, e non solo in Francia, dove il suo mito comincia ad affermarsi abbastanza tardi, dopo la mostra del 1977 curata da Jean Clair che aveva da poco scritto un saggio su Duchamp Grand Fictif, grande illusionista. In Italia la celebrazione di Duchamp era partita già prima, all’inizio degli anni Sessanta, quando Arturo Schwarz aveva corteggiato con tenacia l’illusionista convincendolo a realizzare una serie di copie, in otto esemplari ciascuna, dei suoi principali readymade: eppure, anche da noi l’anniversario è trascorso quasi sotto silenzio.

E in questa mostra sul cubismo che posto ha Duchamp? Minimo se non ininfluente. Apollinaire nel suo celebre saggio sui cubisti aveva invece riconosciuto a Duchamp con enfasi il ruolo di chi forse avrebbe messo d’accordo arte e popolo. Si potrebbe dubitare della sincerità del poeta (che non amava Duchamp), ma anche in questa mostra sul cubismo i curatori sembrano essersi quasi dimenticati del buon Marcel: hanno esposto solo I giocatori di scacchi del 1911 e, con bizzarro salto logico, La ruota di bicicletta del 1913 e Fresh Widow del 1920 nella sezione “Postérité du cubisme”. E l’emblematico Nu descendant un escalier del 1912? Altrove ho constatato che questo celebre dipinto, rifiutato al Salon des Indépendants, opera dopo la quale Duchamp rinuncia alla pittura e si dedica ai readymade, esprime in pittura lo stesso concetto della Ruota di bicicletta: rappresentare il movimento attraverso ciò che è essenzialmente statico, il quadro. Così la ruota gira imperniata sullo sgabello, che è statico e le fa da piedistallo o appoggio.

È divertente l’aneddoto del rifiuto che Duchamp subì nel 1912: Gleizes e Metzinger, pittori cubisti e capi della commissione degli Indipendenti andarono a casa di Duchamp, accompagnati dai suoi due fratelli, Jacques Villon e Raymond Duchamp-Villon, con l’intenzione di fargli cambiare il titolo dell’opera. La ragione che accamparono era assai curiosa: un nudo – dissero – non scende le scale, un nudo o sta in piedi oppure giace disteso. Voi avreste replicato a una tale scemenza? Marcel certamente no, chiamò un taxi e si fece condurre al Quai d’Orsay, sede dell’esposizione dove aveva depositato il quadro, se lo fece restituire e lo portò a casa. L’anno dopo lo espose all’Armory Show a New York, con grande successo, e fu l’inizio della sua carriera americana che gli conferì nel dopoguerra lo status di mito. Ma ecco che anche in questa mostra parigina il suo ruolo è ridimensionato. Che sia un nuovo diktat del collezionismo e del potere museale e mercantile che non può speculare troppo su Duchamp (non c’è molto da vendere di suo), mentre Picasso e gli altri rappresentano una miniera di denaro?

Ma torniamo a Braque e Picasso: il cubismo è tutto qui. Il cubismo analitico, l’unico dove il linguaggio è più forte dello stile. Gli altri artisti che accolgono la novità, lo interpretano esattamente al contrario, et pour cause: lo stile s’impone più del linguaggio. La mostra di Parigi, infatti, sembra una retrospettiva sui due patriarchi, con il corollario di quelli che hanno messo a frutto il linguaggio cubista da loro codificato: persino il grande Juan Gris, nella cui vena lirica si lascia già presentire il surrealismo, rischia di apparire decorativo. Gli altri si adeguano e cercano di distinguersi lavorando sullo stile e poco sul linguaggio: così Léger prima della Grande Guerra; e dietro possiamo mettere uno dopo l’altro Gleizes, Le Fauconnier, Marie Laurencin, Metzinger, Jacques Villon, mentre Picabia, Sonia e Robert Delaunnay, il notevolissimo Léopold Survage, e altrove Malevic e Mondrian, elaborano soluzioni che spostano il discorso sull’astrattismo, che sia orfico ovvero costruttivista. Curioso che in questa mostra manchi ogni esempio del futurismo, da cui i cubisti qualcosa hanno preso, almeno nell’idea del movimento.

Ho lasciato da parte la scultura: quella dei Laurens, Lipchitz, Modigliani, Duchamp-Villon, Archipenko, Brancusi, e naturalmente il più furbo e capace di tutti, sempre lui, Picasso, perché, mi verrebbe da dire che il cubismo nella scultura non esiste. È primitivismo formale. Forse l’unico scultore cubista è Boccioni, ma qui non è esposto. Il cubismo è gioco da illusionisti (Duchamp l’aveva perfettamente compreso) e la sua apoteosi è essenzialmente pittorica, “retinica” direbbe ancora Duchamp. Forse meriterebbe ricordare Carrà che nel 1916, in Parlata su Giotto, rievocava in lui il lontano precedente del cubismo. Un emblema plastico, per così dire; ma Longhi aveva parlato anche dei “coretti illusionistici” di Giotto come antecedente della prospettiva moderna. Le due cose si sommano, dunque.

Vedendo Braque e Picasso l’uno accanto all’altro con un numero considerevole di opere, mi sono fatto anche questa idea: il vero cubista è Braque, non a caso il termine venne coniato da Matisse a proposito dei paesaggi dell’Estaque dipinti da Braque nel 1908 come “piccoli cubi”. Ma Braque è lirico, mentre Picasso è invariabilmente plastico, incline alla pesanteur. Braque rende aerea la rifrazione di piani che scompongono la visione del soggetto e i colori risultano quasi diafani, mentre in Picasso il volume appare sotto una luce tragica. Braque, dopo il cubismo, approderà agli Oiseaux, come graffiti sull’immaginaria membrana dello spazio infinito; Picasso diventerà il genio scultoreo più sensazionale del Novecento: tutto in lui è terza dimensione e forma solida. Il cubismo di Braque sottrae volume alla forma, sfonda i piani senza piegarli alla prospettiva classica; mentre Picasso è probabilmente l’erede più diretto di quell’“estasi immobile” che dal primitivismo tribale approda allo spazio teatrale e metamorfico. La parola fine a questo discorso è dello stesso Picasso quando realizza il sipario dell’opera Parade di Djagilev e Cocteau con le musiche di Satie. È il 1917. La Grande Guerra infuria.