Agorà

'900 inquieto\6. Crovi e l’Italia dei misteri

Raffaele Nigro sabato 19 luglio 2014
​Eravamo un piccolo gruppo,sparso per l’Italia ma legato da affinità,da consonanze culturali  e da amicizia. Intorno a lui,Raffaele Crovi, c’erano Prisco, Montesanto, Citeroni, Pampaloni, Pontiggia, Scheiwiller, Buzzi, Mondo, Bonura, la Bianchini,la Ginzburg. Molti dei quali oggi sono altrove. Prima di costoro,Crovi aveva fatto gruppo con Elio Vittorini presso la cui abitazione aveva incontrato Pontiggia,Calvino, Parise. Sempre in gioco di squadra, in una sorta di battaglia collettiva e individuale per difendere e imporre la creatività italiana. Raccontava frequentemente il suo primo incontro con Vittorini, le partite a scopone del sabato sera, il lavoro ai Gettoni e poi al "Menabò". Erano il diavolo e l’acqua santa, ma vicino a un laico come Vittorini Crovi aveva modo di riflettere sul proprio cattolicesimo e dargli una svolta sociale. Da Vittorini aveva imparato a costruire un testo, soprattutto a tagliare, limare, a imporlo. Agenda e telefono alla mano. In un lavoro faticoso di falciatore delle parole, da operaio della cultura. Crovi amava le sfide, il confronto diretto con la vita ripartendo sempre da zero. Fondamentali per lui erano il lavoro, l’amicizia, la fede e la famiglia. Fondamentale il reportage sulla quotidianità,un realismo etico che andava verso l’umanesimo integrale. Aveva cominciato nella Mondadori, ma era irrequieto, apparentemente calmo eppure sempre insoddisfatto del molto che faceva. C’è un letterato Crovi di stretta osservanza della linea lombarda, chiuso nella Milano glaciale e nella scrittura didascalica e illuminista e che arriva fino agli anni Novanta, una scrittura venata di eticità cristiana a volte anche troppo puritana. Si vedano i versi de L’utopia del Natale, una Milano che appare un presepe, ma un’utopia. Raffaele è per certi versi un cattolico all’antica, osservante e praticante, un uomo che traduce l’etica cristiana in versi taglienti come una lama e che trasferisce il razionalismo teologico ed esplicativo dell’amico monsignor Ravasi nel vocabolario della poesia e delle metafore narrative di ascendenza volteriana. Temi e anatemi che vengono espressi in una musicalità apparentemente festosa, ma profondamente ironica e sentenziosa. Versi e racconti come prosieguo di un decalogo sferzante per i tempi moderni. Crovi è disarmante, feroce,con se stesso e col lettore. Basti vedere i versi dedicati alla propria malattia. Il verso si fa amaro e pur conservando il passo giocoso la giocosità diventa dolente, tragica direi per crudezza: «quando/mi fu annunciato/che avevo il cancro/la mia mente mise a fuoco/la figura retorica della paronomasia/tumore-timore», dove è evidente il richiamo al Timore e tremore di Kierkegaard. Sono in assoluto i versi più feroci e più disarmanti che gli siano mai venuti, quelli dove si fa i conti con la vita.Ma questo ferreo credente non è mai chiuso alle prospettive del pensiero. Se politicamente è democristiano e vicino a Prodi, Vittorini è sempre lì, pronto a bilanciare anche se nel ricordo,con il suo laicismo, le convinzioni dell’allievo. Ed eccolo livido contro la borghesia milanese, luogo della maschera che va sferzato con la rabbia di un Cristo nel tempio, con ironia e ferocia. Eccolo lì a cercare il dopo Tomasi di Lampedusa, il dopo Levi, preoccupato delle questioni del Sud. Verso la maggiore età, forse in ragione dell’incontro con la narrativa antropologica del Mezzogiorno, Abate, Lupo, io stesso, Crovi fugge verso la provincia, i cui valori riesce ad opporre alla maschera e al gelo di Milano. Scopre che Cristo è tra le colline di Reggio, sull’Appennino, i valori da lui predicati erano disseminati tra quelle montagne, sono nei volti dei contadini, in quella Valle dei cavalieri dove suo padre vendeva indumenti intimi e dove cantano i galli, fruscia il vento tra le felci e dove sua madre prega nel silenzio con Matilde di Canossa. La sua si trasforma nella narrativa di uno scrittore caldo, legato all’Appennino, all’antropologia culturale, alla sua Emilia e decide di riscrivere le Confessioni di un Italiano.Raffaele Crovi ci ha sommerso negli ultimi anni in una valanga di titoli. Dal Viaggio nel Sud ai ricordi di Vittorini, ai piaceri della letteratura della musica della pittura goduti negli anni. Lo scrittore scavava nel proprio archivio e sistemava frammenti e ricordi, come spaventato dal futuro. Nel 2006 Cameo, il romanzo di un malato di tumore che ripercorre nei mesi di degenza la propria vita facendola correre in parallelo con la storia della sua città, Reggio Emilia e con quella degli ebrei che hanno subito nel Novecento i drammi che tutti sappiamo. Nel 2007 il romanzo Nerofumo, dove affronta il dissidio tra politica e onestà.Ermes Consigli, il protagonista, è un linguista della Sapienza che amministra un sito web grazie al quale gestisce un potere informativo inquietante. Gli strumenti che  adopera sono la bugia, la delazione, l’intrigo. Nel 1983 addirittura Ermes con tre lettere anonime inviate ai quotidiani provoca le dimissioni del capo del Governo. Cosa che intende rifare nel 2006 col presidente del Consiglio Prodi. Crovi entra così nel vivo della cronaca politica dei nostri anni e costruisce l’immagine di un italiano senza scrupoli e bipartisan, sempre pronto a saltare sul carro del vincitore.