Agorà

Teatri. La crisi va in scena. Non solo in Italia

Alessandro Beltrami venerdì 12 dicembre 2014
Nel rapporto annuale del 2013, pubblicato lo scorso settembre, la Royal Concertgebouw Orchestra di Amsterdam ha annunciato che senza l’intervento del governo olandese sarà costretto a sciogliersi nel 2016. Pare improbabile che una delle orchestre più prestigiose al mondo possa davvero chiudere i battenti – too big to fail. Ma il bilancio del 2013 segna un deficit di 863.461 euro. «La nostra posizione è ancora molto forte, ma sta peggiorando rapidamente», ha detto il direttore commerciale dell’orchestra, David Bazen.  Siamo abituati a piangere la situazione italiana, ma la crisi sta colpendo pesantemente orchestre e teatri d’opera in tutto il mondo. Le manovre sono difficili. Il caso della Concertgebouw è esemplare: non può aumentare il prezzo dei biglietti, già più costosi delle altre orchestre europee; la sua attività concertistica è già al massimo della capacità; la situazione non facilita l’ingresso di sponsor. Sarà anche complicato ottenere nuovi fondi dallo Stato: la Concertgebouw ha già visto aumentate le sovvenzioni negli ultimi anni, mentre altre orchestre olandesi hanno subito tagli.  Non lontano, a Bruxelles le cose non vanno meglio. Sul sito de La Monnaie, il teatro d’opera più importante del Belgio, campeggia un triangolo nero con la scritta «cultural black out». Il governo ha tagliato i fondi federali alla cultura. Il teatro e l’orchestra nazionale saranno soggetti a decurtazioni fino al 20% a partire dal 2015, con un aumento progressivo del 2% ogni anno fino al 2019. Nel Regno Unito le sovvenzioni non arrivano direttamente dallo Stato ma attraverso i diversi Arts Council, uno per ogni “corona”. L’Arts Council England finanzia 670 realtà tra arti visive, musica, teatro, danza e organismi culturali, per un totale di 340 milioni di sterline all’anno, ossia 430 milioni di euro (la cifra non è direttamente comparabile con il nostro Fus perché quest’ultimo riguarda solo lo spettacolo). Il bilancio 2014/15 ha visto tagliare i fondi alla English National Opera, il secondo teatro britannico, del 29%: da 17,2 milioni di sterline a 12,4. Il teatro ha ottenuto un «finanziamento di transizione» una tantum di 7,6 milioni di sterline, per facilitare il passaggio a un «nuovo modello di business» che prevede la messa in scena di musical. Nel 2011 nel Regno Unito sono stati varati tagli progressivi fino al 2015 per orchestre e teatri. Compagini come Royal Philarmonic Orchestra, London Symphony Orchestra e City of Birmingham Symphony Orchestra hanno subito riduzioni fino all’11%. I budget della Royal Opera e della Welsh National Opera sono stati decurtati del 15%.  Quasi certamente chiuderà l’orchestra sinfonica dell’Ulster, la sola professionistica dell’Irlanda del Nord, vittima dei tagli dell’Arts Council e della Bbc. Non salverà l’orchestra di Belfast, ma va segnalato che il ministro delle finanze britannico George Osborne il 3 dicembre scorso ha annunciato allo studio sgravi fiscali per le orchestre.  In Francia la crisi colpisce soprattutto le realtà regionali, una ventina sulle quaranta orchestre permanenti. L’Opéra di Montpellier nell’ottobre scorso ha dichiarato di essere sull’orlo della bancarotta: il consiglio regionale della Languedoc-Roussillon non ha versato i 4 milioni di euro promessi. Il teatro ha un bilancio di 22 milioni di euro, di cui 1,3 milioni dalla biglietteria e 20 da sovvenzioni statali. Martedì è stato annunciato che il piano per salvarlo prevede la dismissione di trenta persone (su 240 totali), tra musicisti e amministrativi. Dal maggio scorso l’Opèra di Saint Etienne è in piena crisi mentre l’orchestra di Digione riuscirà a terminare la stagione grazie a un finanziamento eccezionale della città di 180mila euro, a fronte di una richiesta di 330mila. Il “poi” è un punto di domanda. In Francia i tagli a livello locale stanno toccando in modo significativo alcune eccellenze internazionali. La città di Grenoble il 6 dicembre ha dichiarato il ritiro di 438mila euro di sovvenzioni ai Musiciens du Louvre di Marc Minkowski. A settembre Caen, dopo 25 anni di residenza, ha annunciato di non voler rinnovare la convenzione di 334mila euro con Les Arts Florissants di William Christie, un altro big della musica antica.  Se la situazione europea non è rosea (sola immune pare essere la Germania, dove peraltro la musica classica e l’opera hanno un mercato radicato e la forte presenza di teatri di repertorio, a scapito della novità, consente l’abbattimento dei costi) non brilla nemmeno negli Stati Uniti. Qui i fondi pubblici, a differenza del vecchio continente, incidono in parte ridotta nei bilanci ma la crisi ha segnato la presenza di sponsor e donatori. Nell’ottobre 2013 ha chiuso dopo 70 anni la New York City Opera, tra le compagnie più importanti degli Stati Uniti, «l’opera del popolo», come la chiamò Fiorello La Guardia. Dei 7 milioni di dollari necessari al rilancio ne è stato raccolto soltanto uno. A maggio l’Opera di San Diego si è salvata in extremis dalla chiusura mentre a novembre la Florida Grand Opera ha ammesso che il bilancio è al lumicino e a meno di grosse donazioni la compagnia spegnerà le luci. Tra le grandi orchestre, sempre a novembre, Atlanta è emersa faticosamente da una crisi durissima e uno sciopero ininterrotto di due mesi.  Ma a tremare è anche il Met: 320 milioni di dollari di bilancio, 1.600 persone in organico, 15 sigle sindacali, apertura sette giorni su sette. Un mastodonte colpito al cuore da costi in crescita – nel 2013 un orchestrale ha percepito in media 202mila dollari netti – e declino al box office (nella scorsa stagione è stato venduto solo il 69% dei biglietti). Il general manager Peter Gelb ha dichiarato che se i conti non dovessero tornare in ordine si potrebbe profilare la bancarotta nel 2017. Nel luglio direzione e lavoratori sono arrivati alle strette – con la minaccia di una serrata per tutta la stagione – su tagli a straordinari e pensioni. L’intesa è stata raggiunta in agosto, ma è una pace armata. E a novembre Gelb ha dichiarato che il deficit nel 2014 sarà di 22 milioni di dollari, il 7% del bilancio. Davvero «troppo grande per fallire»?