Agorà

Esegesi. Se la libertà dà senso alla Creazione

GIANFRANCO RAVASI domenica 3 gennaio 2016
Venti anni: un traguardo importante per un mensile di arte e cultura. “Luoghi dell’Infinito” cominciava la sua storia nell’ottobre del 1997. Si proponeva di essere compagno di viaggio verso il grande Giubileo del Duemila e scoprire tesori d’arte e di spiritualità spesso svuotati del loro significato, perché separati dalla fede del popolo che li ha generati. Solo così le “pietre della memoria” – abbazie, pievi, cattedrali, che segnano ogni angolo d’Italia e che fanno del nostro Paese una terra sacra – possono essere luogo di stupore e di conoscenza, ma anche esperienza di vita per chi, con libertà e perfino con inconsapevolezza, è alla ricerca del volto di Dio. Abbiamo percorso e continueremo a percorrere la “via della bellezza” attraverso il dialogo tra le arti e l’incontro tra culture e tradizioni. Nella coscienza che il cuore della storia è la relazione tra finito e infinito e che non ci sia domanda più autenticamente umana di quella che chiede bellezza, che è insieme domanda di bene e di vero. Se importante è l’apparire dell’universo dal silenzio del nulla, è decisivo per la Bibbia l’ingresso dell’uomo tra le creature: la narrazione del capitolo 1 della Genesi colloca, infatti, la creazione dell’uomo al vertice, in un sesto, estremo giorno creativo, come ottava, suprema opera divina. L’uomo entra dunque in scena come apice della creazione, dopo una solenne dichiarazione divina pronunziata nel plurale maiestatico: «Facciamo l’uomo secondo la nostra immagine, come nostra somiglianza, affinché possa dominare sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame e sulle belve della terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra» (1,26). È quasi la nomina di un vicario del potere di Dio, di un viceré planetario delegato dallo stesso Creatore che in lui ha posto un sigillo divino: l’uomo, infatti, è «immagine» di Dio, è la rappresentazione più 'somigliante' di Dio che si possa concepire. Ma ecco che questa creatura così nobile e alta sta per svelare anche il suo volto satanico segreto. È ciò che che viene presentato nel secondo racconto della creazione, giustapposto dal redattore finale della Genesi al primo: sono i capitoli 2-3, attribuiti alla cosiddetta 'Tradizione Jahvista', una corrente teologica più arcaica di quella 'Sacerdotale' presente nel capitolo 1 (il termine 'Jahvista' deriva dal nome divino specifico JHWH). Queste due pagine sono costruite a dittico, ma con tavole dalle tonalità opposte, policroma e luminosa quella del capitolo 2, oscura e tragica quella del capitolo 3. Entrambe sono dipinte seguendo tre registri paralleli che descrivono in modo sceneggiato le tre relazioni fondamentali che legano l’uomo alla trascendenza (Dio), al cosmo (materia e animali), al suo simile (la terra). Fermiamoci innanzitutto davanti alla prima tavola 'paradisiaca' (è, infatti, immersa in un giardino fiorito, popolarmente detto 'paradiso terrestre', anche se nell’originale biblico si usa solo il termine 'giardino') e scorriamo i tre registri. In quello superiore ci pare quasi di trovare l’indimenticabile scena michelangiolesca della creazione di Adamo affrescata sulla volta della Sistina. Ma qui, tra il Creatore e l’uomo, non corre la linea dei due indici che s’incontrano, bensì un filo di respiro comune. Nella materialità limitata e caduca dell’uomo (la «polvere del suolo») corre una nishmat-hajjim, di solito tradotta come «alito di vita» (2,7). In realtà quell’alito non è il respiro vitale o 'spirito' ( rûah), posseduto anche dagli animali. È, secondo la Bibbia, una realtà posseduta solo da Dio e dall’uomo, «una fiaccola divina che scruta tutti i segreti del cuore » (Proverbi 20, 27). Si tratta, quindi, della capacità di penetrare i misteri della coscienza, è la sorgente della morale e dell’autocoscienza. Procediamo e scopriamo il secondo registro della tavola della creazione dell’uomo. Appare, dopo quella che lo lega a Dio, la seconda relazione che vincola l’Adamo- Uomo alla realtà esterna. Egli non guarda solo verso l’alto, ma anche verso il basso, verso quella materia da cui proviene.  Egli sente una specie di fraternità con la terra e gli animali. Quel «coltivare e custodire » il giardino dell’Eden (2,15), quel cibarsi di frutti (2,16), quell’imporre il nome alle bestie (2,1920) sono la rappresentazione dell’homo faber, cioè del lavoro e della conoscenza che permettono all’umanità di penetrare e di insediarsi nel creato, in una convivenza nobile e 'signorile'. Eppure l’uomo lavoratore e scienziato, giunto al tramonto della sua giornata di lavoro e di studio si sente ancora incompleto. L’ominizzazione piena si compie nel terzo registro della tavola del capitolo 2, con l’ultima relazione. L’uomo ora guarda di fronte a sé, cercando «un aiuto degno di lui» (2,18.20): l’originale ebraico ( kenegdô) letteralmente evoca una realtà che stia 'di fronte', cioè un 'partner'. È il legame col prossimo, con l’altra creatura umana in cui specchiare i propri occhi, in cui versare il proprio dolore e la gioia, con cui condividere ansie e speranze. Questo legame è tipizzato nell’unione d’amore con la donna (2,21-25), raffigurata attraverso due simboli. Il primo è quello della 'costola'. In sumerico l’ideogramma tisignifica contemporaneamente 'costola' e 'vita, vivente'. Il senso dell’immagine, al di là delle banalità dette e scritte al riguardo, è quello della solidarietà 'carnale' e quindi esistenziale tra i due, l’uomo e la donna. Ben conoscendo il valore del corpo come segno di comunicazione nell’ambito semitico, si può intuire quale sia il significato del simbolo 'costola', attraverso l’esplicita decifrazione che se ne fa nell’inno d’amore di 2,23, primo ed eterno canto d’amore dell’uomo e della donna che si amano: «Questa volta è osso dalle mie ossa e carne dalla mia carne!». Il secondo simbolo è, invece, di tipo linguistico. Si gioca, infatti, sull’assonanza tra ’ish, 'uomo, maschio' e ’isshah, 'donna'. Anche se i due vocaboli hanno una diversa matrice etimologica, essi si prestano per assonanza a essere considerati come il maschile (’ ish) e il femminile (’ isshah) dello stesso termine, creando così la suggestione della complementarità nell’unità dello stesso essere, della diversità sessuale nell’identità della realtà umana. «La si chiamerà ’isshah perché da ’ish è stata tratta» (2,23). L’uomo e la donna sono dunque, secondo la Genesi, «una sola carne» (2,24) sia nell’atto fisico d’amore, sia nella dimensione esistenziale e umana, sia infine – come spiegava un famoso esegeta tedesco, Gerhard von Rad – nel figlio che da loro nascerà, unica carne di due persone. Già la tradizione giudaica sottolineava tale identità nella distinzione: nell’amore tra uomo e donna l’uno diventa uguale al due! «Colui che era Adamo – commentava nel IV secolo sant’Efrem siro – era uno ed era due, perché fu creato maschio e femmina ». La prima tavola del nostro ideale dittico ha disegnato nei suoi tre registri la triade fondamentale delle relazioni umane nella versione codificata soprattutto dalla letteratura sapienziale: il rapporto uomo-Dio, uomo- cosmo, uomo-uomo. Prima di passare alla seconda tavola, destinata a dipingere lo scardinamento di questo progetto pensato da Dio per la sua creatura più alta, è necessario esaminare il legaccio che tiene insieme le due tavole. Si tratta di un simbolo vegetale, quell’«albero della conoscenza del bene e del male» (2,9.17) del tutto ignoto ai botanici. Siamo, infatti, in presenza di un albero non fisico, ma metafisico.  Nella Bibbia il simbolismo vegetale rimanda spesso alla sapienza divina e umana e vuole rappresentare un progetto di vita. L’albero della Genesi è, poi, collegato con la conoscenza, cioè con l’adesione piena, «del bene e del male », che sono i due estremi della moralità. Siamo, dunque, di fronte alla morale manifestata all’uomo e simboleggiata nell’albero vivo che si ramifica nel cielo dell’armonia del giardino dell’Eden. L’uomo afferra il frutto di quell’albero cercando di possederlo. Il gesto ha un netto significato, decisivo per comprendere il 'peccato originale', anzi, ogni peccato o, se si preferisce, la radice velenosa di ogni delitto, secondo le Scritture. L’uomo, violando il comandamento divino, vuole decidere autonomamente quale sia il bene e il male e rifiuta di riceverli codificati da Dio. L’uomo sceglie di essere lui stesso l’arbitro della morale, respingendone ogni definizione trascendente. Boccia, così, il progetto di Dio. Questa è la radice ultima del peccato, di ogni peccato, l’origine stessa del peccato, è il peccato nella sua struttura radicale di orgoglio, di hybris, di sfida, di «essere come Dio conoscitori del bene e del male» (3,5). Suo sbocco è la morte, intesa nel suo senso 'simbolico', ossia globale, fisico-spirituale – la terminologia usata, in ebraico ( môt tamût, «certamente morrai») è quella tipica della condanna per la violazione della legge sacra –, è la separazione dal Dio della vita fisico-spirituale. […] Grande e drammatica qualità, la libertà dell’uomo è un ritirarsi di Dio ancor più arduo del suo ritrarsi dalla creazione per lasciarle spazio e consistenza. Egli non vuole avere davanti a sé solo stelle che obbediscono a meccaniche celesti o stagioni che rispondono a ritmi obbligati o animali che seguono istinti in loro impressi. Vuole avere un rischioso interlocutore, pronto a rispettarlo nelle sue follie, anche se non a giustificarlo o ignorarlo. […] Dio non ha incatenato tutte le potenzialità della libertà, ha solo voluto definire i valori morali sui quali esercitare la libertà (l’albero della conoscenza del bene e del male). È ciò che sa bene la donna, e lo attesta in modo esplicito nella sua replica al serpente (3,2-3). Ma, aperto il varco, il serpente fa balenare la possibilità di rompere ogni legame, di sfidare Dio anche sull’unico, fondamentale comandamento. Il precetto divino viene maliziosamente presentato come un’assurda e ostile gelosia nei confronti dell’uomo: «Dio sa che […] si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscitori del bene e del male» (3,5). È questa una perfetta definizione del peccato in senso teologico: è un atto di ribellione in cui l’uomo si sostituisce a Dio, arrogandosi la sua sapienza, la sua divinità, la sua signoria sul bene e sul male. La lettura dei primi tre capitoli fondamentali della Genesi rivela che la Bibbia guarda alla fragile libertà umana con un certo pessimismo. Non c’è, dunque, speranza per l’autore della Genesi? No, la catena della maledizione può essere interrotta e ciò accadrà quando Dio stesso, deluso della sua creatura, ma non disperato di riportarla nel giardino perduto, deciderà di ritornare in scena, scegliendo un uomo, Abramo, come nuovo interlocutore. La storia di Abramo, infatti, comincia con la radice verbale ebraica della benedizione, brk, ripetuta per ben cinque volte: «Ti benedirò – dice il Signore ad Abramo – tu stesso diventerai una benedizione, benedirò coloro che ti benediranno […] e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (12,2-3). Sorge ormai l’alba della storia della salvezza.