Agorà

IDEE. Così nacque l’unico Dio di Mosè

Franco Cardini giovedì 8 ottobre 2009
Che cos’è stato più «naturale» nella storia dell’umanità: concepire un solo Dio o un numero molteplice e indefinito di dèi? Il concetto di divinità è stato associato, fin dalle età più arcaiche, alla semplicità dell’Uno o ai mille volti dei Molti? E siamo proprio certi, infine, che il passaggio dall’Uno al Molteplice (o viceversa) sia poi così de terministicamente ovvio e inevitabile? Negli ultimi anni, la letteratura tanto teologica quanto antropologica (ma anche storica e archeologica) sulla «protostoria« o sulla «storia» di Dio si è arricchita di molti studi relativi, in particolar modo, al monoteismo biblico e alla sua «genesi», tra l’elohismo di alcune parti del Libro sacro che pongono il Dio d’Israele, Elohim, come più grande e più forte degli «dèi delle Nazioni» cioè dei goim, dei «gentili» (che restano tuttavia dèi) e il yahwismo per il quale Yahweh è echad, l’Uno, l’Unico, aggettivo che suona quasi esattamente uguale in arabo e che  usato anche dai musulmani (Allah al-Wahed, uno dei 99 Nomi di Dio). Jan Assman, egittologo emerito dell’Università di Heidelberg, ha edito tra l’altro un saggio su Mosè l’egizio (Adelphi), che si riallaccia strettamente ai temi già trattati nel famoso Mosè e il monoteismo edito nel 1939 da Sigmund Freud e nella replica, quasi famosa altrettanto, che nel 1991 gli dedicò Y.H. Yerushalmi con Il Mosè di Freud (tradotto in italiano da Einaudi nel ’96). Oggi pubblica dal Mulino Dio e gli dèi. Egitto, Israele e la nascita del monoteismo, (traduzione di L. Santi, pp. 214, euro 15). Ma è davvero trattabile come qualcosa di genetico, anzi in ultima analisi evoluzionistico, il tema dell’unità divina e del monoteismo, rispetto al quale si è più volte rilevato che la tradizione abramitica non va oltre i limiti del cosiddetto enoteismo (un Dio più forte e potente degli altri dèi, che pure sono tali) e che quindi si deve arrivare all’età post-mosaica per trovarci dinanzi a quella che Karl Jaspers avrebbe definito «età assiale», quella in cui una parte del genere umano si sarebbe poste le domande fondamentali circa lo scopo della vita, il superamento del fato come governante dell’esistenza, la responsabilità degli uomini, il senso da conferire al dolore e alla morte? I problemi fondamentali di Assmann sono in questo contesto tre. Primo: il monoteismo di stampo mosaico (ripreso nella sostanza da cristiani e da musulmani) può conciliarsi con l’idea di un confronto con sistemi politeistici che mostrano in apparenza molti dèi ma che sono essi stessi il disvelamento degli infiniti aspetti di un solo Dio, o va inteso come il frutto della rivelazione di un solo Dio che annulla e condanna tutti gli altri? Secondo: è possibile intendere il monoteismo come il vero movimento «assiale» della storia in quanto il Dio unico non accetta – a differenza dei molti dèi «pagani» – di restar confinato nel mito, ma irrompe nella realtà, con ciò ponendo per la prima volta il problema della Verità, che è cruciale nel tempo storico mentre, in rapporto al mito, non ha alcun senso (ed è questa la «distinzione mosaica» tra Vero e Falso)? Terzo: è plausibile affermare che la rivoluzione monoteistica comporti la violenza, oppure essa è il prodotto della Modernità ateizzata che rappresenta una rivolta contro il monoteismo stesso? Assmann insiste con forza sul fatto che il monoteismo biblico non è affatto né evolutivo né inclusivo: non nasce dalla «maturazione» di un politeismo che finisca col considerare la molteplicità dei suoi dèi come pluralità di volti di un Dio unico, bensì come distinzione e affrontamento tra il vero Dio e gli «altri dèi», che il decalogo rivelato a Mosè impone di rifiutare. Ciò riguarda appunto il monoteismo della Bibbia, non necessariamente altre eventuali forme monoteistiche. Ma a questo punto l’età odierna, con le sue caratteristiche problematiche, riprende il sopravvento e obbliga Assmann a uscire dall’ambiguità per domandarsi se può esistere un monoteismo tollerante. Le verità d’una fede monoteista non possono essere che assolute, quindi non negoziabili: non c’è posto per null’altro. Ma le religioni concrete sono per forza di cose aperte alla dinamica storica: nel loro confrontarsi, la rispettiva certezza del possesso assoluto ed esclusivo della Verità cede necessariamente il passo alla comune aspirazione verso di essa. La fede non è certezza di dominio della verità, ma «sostanza di cose sperate». È questa consapevolezza che induce, senza rinunziare all’assoluto, a tradurlo in una tensione continua che implica il confronto con le fedi altre rispetto alla propria.