«Il nostro carattere è come un diamante, è una pietra ma ha un punto di rottura… ». È una delle tante perle di saggezza che ha lasciato in eredità al mondo dell’atletica Pietro Mennea, prematuramente scomparso il 20 marzo 2013, a sessant’anni. Luca Panichi di anni ne ha 45, e fin da bambino non ha mai smesso un solo giorno di correre. «Ho iniziato nel 1979 a Rufina, il paese alle porte di Firenze dove sono nato (dal 1995 risiede a Montevarchi) e per trent’anni ho partecipato a tutte le gare possibili, nazionali e internazionali, tra i 1.500 e la maratona». Nello score del “gigante buono” (è alto 1 metro e 92 centimetri) dell’Assi Giglio Rosso, «la mia prima società sportiva», un titolo europeo a squadre vinto nel 1992, la stagione della consacrazione del «talento Panichi». Seguono la discesa sotto i 30 minuti (29’ e 52) nei 10 mila metri, la Fiaccola d’Argento come miglior atleta toscano e il primo posto nella classica “Notturna di San Giovanni”, «della quale - dice fiero - , detengo il record ancora imbattuto. Neppure i keniani ci sono riusciti a superarlo». Ma l’apoteosi, l’ha sperimentata correndo sotto i grattacieli della Grande Mela, alla Maratona di New York del 2001: 47° assoluto e 5° classificato degli italiani. «Un piazzamento prestigioso e una girandola di emozioni incredibili. Si gareggiava poche settimane dopo l’11 settembre e non dimenticherò mai l’affetto dei newyorkesi che ci ringraziavano solo per il fatto di essere lì con loro. All’arrivo ero sfinito, ma felice e commosso. Il primo pensiero andò a quelle migliaia di vittime innocenti dell’attentato alle Torri Gemelle e poi a mio zio Giancarlo che era stato il mio primo grande tifoso, morto proprio nel ’92 quando cominciavo a fare risultati importanti». Dopo New York, un altro decennio di allenamenti massacranti e di successi: «Soldi sempre pochini, come è nel destino di chi fa atletica, ma soddisfazioni tante». Tutto questo fino al fatidico punto di rottura: la malattia. «Il 12 dicembre 2012 mi hanno diagnosticato un endocarcinoma ai polmoni con metastasi alla schiena. I medici mi hanno detto chiaro e tondo che la mia aspettativa di vita è di cinque anni e ho solo il 5% di possibilità di guarigione». Una “condanna” che avrebbe fiaccato chiunque, ma non Luca che, dopo quattro cicli di chemio e dieci di radioterapia («avevo perso 14 chili in una settimana»), alla cura biologica, a base di Crizotinib, ha continuato ad abbinare l’imprescindibile e vitale attività fisica. «Faccio spinning tutti i giorni e corricchio 3-4 volte alla settimana. Al campo sto sempre in movimento, faccio parte dello staff tecnico della Nazionale dei 100 km e seguo gli allenamenti di una decina di ragazzi tra i 14 e i 18 anni». L’età dei suoi due figli, Irene (18enne, promessa dei 2mila siepi) e Federico (14enne cadetto che già primeggia in Toscana) che lo hanno appena accompagnato a Roma all’udienza da papa Francesco. Una famiglia di sportivi i Panichi, completata da mamma Isadora Meucci, ex ginnasta azzurra: «Mia moglie è il pilastro, il “silenziatore” che con uno sguardo comprende e risolve i momenti più difficili di questa mia sfida».Una sfida in cui non è mai da solo. «La mia “lepre”, nel gergo dell’atletica la guida che indica il passo, oltre alla famiglia e lo sport è una fede ritrovata. Ora ho il tempo e la sete necessaria per bermi un sorso alla volta la quotidianità che è fatta di piccole grandi cose, come leggere una pagina del Vangelo o allenarmi stringendo tra le mani la corona del rosario, arrivando di corsa fino al Santuario della Madonna di Rugiano…». Un luogo di devozione, ma per Luca anche della “memoria”: «Davanti alla chiesa di Rugiano, l’8 settembre del 1944, mia nonna morì calpestando una mina piantata lì dai tedeschi. Quando ho saputo della malattia, è il primo posto in cui sono andato, e lì ho ricominciato a pregare ».Una fede incrollabile lo aiuta a convivere e a correre spalla a spalla con il cancro, come testimonia anche il rapporto che ha voluto stringere con l’ex allenatore del Barcellona Tito Vilanova («gli scrissi una lettera e lui mi rispose subito») , che invece la sua partita contro la malattia l’ha appena persa dopo averla combattuta con grande forza. La giornata di Luca è scandita dalla preghiera, dall’atletica e dal lavoro come guardia giurata allo stabilimento fiorentino di Prada. «Devo ringraziare la Fidelitas di Bergamo che mi ha mantenuto il posto e fatto capire che esistono ancora realtà lavorative (con 1.500 dipendenti) in cui non si è solo dei numeri. Uno stimolo in più per affrontare il mio turno di 7 ore che è diventato quello della mattina, così al pomeriggio posso andare al campo ad allenare». Nella squadra di Luca Panichi c’è anche la neocampionessa italiana della 100 km Barbara Cimmarusti. «Barbara è eccezionale, lavora in fabbrica e si allena, a 42 anni è ancora la più forte nella 100km. Seguo anche Anna Spagnoli che fa 1 ora e sedici sulla mezza maratona. E poi ci sono i “piccoli”, ai quali ricordo sempre che prima viene la scuola, poi se c’è la passione e la voglia di sudare senza ambire ai milioni del calcio, allora questo è lo sport giusto per loro». Uno sport che non ha nessun timore a definire «malato», mettendo in guardia i giovani. «L’atletica non è solo il mio sport, ma lo stile di vita che mi sono dato. A Tirrenia avevo la loro età quando mi proposero una “cura programmatica” con la promessa che sarei sceso di 30 secondi in un lampo. Crescendo mi hanno offerto farmaci, emotrasfusioni e anche l’Epo, ma ho sempre rifiutato, consapevole di far parte della formazione dei “campioni puri”. Chi sono? Quelli che come me hanno sempre detto no agli
aiutini e sono andati avanti solo ed esclusivamente a pane e allenamento duro e costante. Posso indicarne almeno tre di questi campioni puri, per i quali posso mettere la mano sul fuoco: il mio amico fraterno Stefano Mei, uno che a 16 anni sui 3.000 metri faceva il record europeo (8,’08), il grande Pietro Mennea - che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente - e Sara Simeoni. Di altri atleti e di certe situazioni “torbide” che ci sono state e che accadono ancora nell’atletica, non parlo, ma solo perché non posso permettermi un buon avvocato… Di sicuro, la mia malattia non c’entra niente con il doping, non so neppure cosa sia». Ciò che sa Luca oggi, è che «la vita di ognuno spesso è un cassetto chiuso che va aperto. Il male fisico non è mai totale assenza del bene e ognuno di noi ha il dovere di affrontare con coraggio la propria corsa, con gli occhi rivolti sempre al cielo».