Agorà

L'inchiesta. Non siamo solo una linea nel coro

MASSIMO GATTO mercoledì 3 febbraio 2016
«Ele ragazze di colore fanno do-doo dodoo... » cantava Lou Reed in Walking on the wild side rendendo omaggio a una categoria che ha lasciato le proprie impronte digitali su gran parte della storia della musica, ma continua a vivere nell’ombra: i coristi. Artisti spesso straordinari di cui tutti conoscono la voce, qualcuno il volto, ma quasi nessuno il nome. Fra i più famosi c’è Merry Clayton, grandissima interprete gospel e soul passata alla storia del rock nell’ormai lontano ’69 per il duetto con Mick Jagger in Gimme shelter dei Rolling Stones, richiamata in servizio pure dai Coldplay in un paio di brani del loro ultimo album A head full of dreams.  La Clayton è ovviamente tra i protagonisti di 20 Feet from stardom il docu-film che due anni fa è valso l’Oscar al documentarista Morgan Neville e alla sua idea di puntare l’obiettivo su una categoria anomala, anello di congiunzione tra la schiera dei cantanti e quella dei divi. Nella maggior parte dei casi, infatti, le loro non sono storie di occasioni mancate o di fallimenti, ma piuttosto esempi di pacificazione tra vita reale e vita sognata. E se oltre oceano i grandi interpreti confinati oltre quei fatidici “sei metri” che separano ciò che siamo da quello che avremmo potuto essere si chiamano Darlene Love, Lisa Fischer, Táta Vega, Niki Haris, Judith Hill, Bernard Flower, Arnold McCuller, da noi hanno lo charmee il talento di Emanuela Cortesi, Paola Folli, Antonella Pepe, Lalla Francia, Lola Feghaly, Giulia Fasolino, Iskra Menarini, Paola Repele, Roberta Granà, Lidia Schillaci, Monica Hill, ma pure Moreno Ferrara, Silvio Pozzoli, Riccardo Majorana o Stefano De Maco. Tutti eredi eccellenti di Nora Orlandi e Alessandro Alessandroni sparsi tra studi di registrazione, palcoscenici, e trasmissioni tv. Alcune come Sheryl Crow, Rita Coolidge, Faith Evans o Rossana Casale hanno fatto il grande passo, altre come Paula Cole ci hanno provato, ma il grosso dei coristi pop non ha mai tradito la propria scelta di vita. «Lavorare con Mia Martini mi ha insegnato tantissimo, grazie a questa esperienza ho potuto fare tanto lavoro sull’interpretazione e acquisire la consapevolezza necessaria per pormi altri traguardi» spiega la Casale, ribadendo che i modelli sono importanti. «In un brano musicale noi siamo come la farcitura del pan di spagna» semplifica in termini culinari Paola Folli, collaboratrice storica, fra gli altri, di Renato Zero ed Elio e le Storie Tese, in gara nei panni di solista a Sanremo ’98 e attuale vocalcoach di “X-Factor”. «Anche se una volta c’era una scuola, dovevi saper leggere la partitura e fare gavetta, mentre oggi spesso e volentieri non è richiesto». C’è però la tv. «Tra tournée e show televisivi la differenza è abissale» puntualizza Emanuela Cortesi che, oltre ad aver vinto Castrocaro nel ’73 ed essere arrivata in finale a Sanremo l’anno successivo, è stata corista di Ramazzotti, Mina, Pausini, Dalla, De Gregori, Celentano e in decine di show tv. «In tour ti focalizzi su un artista e su una storia, le prove durano settimane e hai quindi il tempo necessario per mettere a punto ogni dettaglio, in televisione invece tutto è frenetico e devi essere sempre “pronto all’uso”, a volte addirittura inventarti in cinque minuti l’arrangiamento vocale di un pezzo rimasto senza». E poi c’è da distinguere tra vocalist e corista. «La vocalist si prende i suoi spazi, improvvisa, mentre la corista è solo al servizio dell’artista» prosegue la Cortesi. «Questo mestiere o lo fai con gioia o è meglio che lasci perdere, sul palco il corista irrisolto si vede e si sente subito». Nel film di Neville, la Fisher dice che la carriera dei coristi è mediamente più lunga di quella delle star con cui lavorano. «Assolutamente vero» conferma la Folli, «la professione di chi usa la voce ha molti più sbocchi di quella del musicista; puoi fare il doppiatore, il solista, i tour, la tv, gli spot pubblicitari e la tua vita “artistica” può essere davvero molto lunga ». Ma la crisi morde pure sei metri dietro al boccascena. «Un tempo i coristi sul palco erano 3 e sembravano 60 mentre oggi spesso sono 2 e sembrano 120» aggiunge la Cortesi. «Con i campionamenti puoi fare di tutto e, assistendo a un concerto o a uno show tv, ad esempio, è facile sentire qua e là la tua voce registrata chissà quando e chissà come. Questo all’estero è vietato, da noi un po’ meno». Non siamo gli americani, meglio mettersi l’anima in pace. «Durante le prove di un Pavarotti & Friends, Anastacia aspettò che finissi di cantare il suo pezzo e poi si inchinò in segno di riconoscenza» conclude “Manu” Cortesi. «Con gli artisti di casa nostra è più difficile che ciò accada, perché c’è meno rispetto dei ruoli e più timore che qualcuno gli faccia ombra». Eccetto i grandissimi, naturalmente. «Ricordo ancora la volta in cui, lavorando assieme sulle seconde voci di un suo album, Mina mi disse: scusa l’imprecisione, ma a fare i cori non sono brava come te…».