Agorà

IL PERSONAGGIO. Contro la mafia la guerra di Piera

Antonio Maria Mira venerdì 19 ottobre 2012
​«Io vedo una ragazza che ha avuto un passato turbolento, che però si è ribellata a questo passato che non ha mai accettato. Vedo una ragazza che ha un presente e avrà un futuro pieno di felicità. Non per altro: hai diritto ad avere felicità per tutto questo che stai facendo». Così Paolo Borsellino parlava a Piera Aiello. Erano davanti allo specchio e la giovane vi si guardava senza speranza. Già ma chi era, chi è Piera? Ce lo racconta lei, nel libro, intenso e commuovente, Maledetta mafia. Io, donna, testimone di giustizia con Paolo Borsellino, scritto col giornalista Umberto Lucentini (San Paolo, pagine 176, euro 12, in libreria nei prossimi giorni). «Ho due vite che corrono parallele. Ho due vite che a volte si incrociano, si sovrappongono, si respingono e si fondono. Ho due vite che si accompagnano da quando, una mattina, la morte mi è entrata in casa a soli ventuno anni. Sono stata la moglie di un piccolo boss di un paese della Sicilia. Poi sono diventata vedova di un mafioso, vestita a lutto come impongono le regole della mia terra, con una bimba di tre anni da crescere e una rabbia immensa nel cuore. È in quel momento che il destino ha messo un bivio lungo il mio percorso: dovevo scegliere quale futuro dare a mia figlia Vita Maria. È allora che ho deciso di cambiare tutto. Devo dire grazie a molte persone per avermi aiutato a tracciare per la mia esistenza una strada diversa. Tra loro c’è un uomo che una mattina mi ha preso sottobraccio e mi ha piazzato davanti ad uno specchio, eravamo in una caserma dei Carabinieri». Piera è una figlia di Sicilia, nata a Partanna, paesone agricolo del Belice. Profumi di zagare e uliveti a perdita d’occhio. Famiglia di lavoratori, il padre costretto a emigrare in Venezuela. Bella ragazza, alta, magra. Da corteggiare. Nicola lo fa con insistenza, ma lei inizialmente lo raffredda. Donna forte e indipendente, anche se poco più che maggiorenne. Ma poi l’insistenza si fa più forte. E interviene il padre di Nicola, don Vito Atria, boss mafioso locale. Piera alla fine cede, forse in realtà ama Nicola. Ma non cede alla mafiosità, prova a cambiare il giovane marito. Prova ad avere una vita “normale”. Ma alla fine la violenza piomba su di lei. L’assassinio di don Vito, le armi che entrano in casa (Nicola la obbliga a tenere una mitraglietta nella borsetta), la vendetta sul killer del suocero e infine la morte, davanti ai suoi occhi, del compagno. È il punto di volta per Piera e, poco dopo, della cognata Rita, figlia di don Vito e sorella di Nicola, che la segue nella decisione di collaborare. Non “pentite” perché le due giovani nulla hanno commesso, ma testimoni di giustizia. Sostenute, aiutate, accompagnate da «zio Paolo», come si faceva chiamare l’allora procuratore di Marsala. Prima in codice poi per vera amicizia. Mi ha fatto, scrive Piera, «capire fino in fondo il vero significato della parola “legalità”: un termine che vuol dire dare se stessi per certi valori senza chiedere nulla in cambio». Così Piera lascia il suo paese per Roma. Sotto tutela costantemente, assieme alla figlia e poi anche con Rita. Parlano, raccontano. Testimonianze preziose, dall’interno del mondo mafioso. Nel rapporto con magistrati sensibili. È la storia, breve, di un rapporto intenso. Al punto che Piera, affida tutto a Borsellino: «Se mi succede qualcosa ti affido mia figlia». La prima e unica volta che gli dà del tu. Lui sorride e risponde con un terribile: «Non ti preoccupare Piera, perché tanto ammazzano prima me». Arrivano infatti le stragi di Capaci e via D’Amelio. Tutto sembra crollare. Soprattutto per Rita. Piera cerca di sostenerla, proprio nel ricordo di “zio Paolo”. «Dobbiamo andare avanti, per lui e per noi, non può certamente finire tutto così». «No, è finito tutto», sussurra Rita. «Un’altra delle mie stelle è volata via, me l’hanno strappata dal cuore». Non regge il cuore della ragazzina di appena 17 anni che pochi giorni prima in un tema a scuola, dopo la morte di Falcone, aveva scritto: «Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo». Il 25 luglio si lascia cadere dal palazzo romano dove vive sotto tutela. «La vita di Rita Atria e la mia sono una storia unica – scrive Piera –: Rita non sarebbe diventata testimone di giustizia se non avesse seguito di sua spontanea volontà il mio esempio; io non sarei stata presa in considerazione fino in fondo se lei non avesse fatto il gesto estremo di togliersi la vita». Già, Piera non si arrende. Continua a parlare, a denunciare. Ma nel 1997 decide di lasciare il sistema di protezione. Nuovo nome, per lei e la figlia, nuova casa, lontana dalla sua Partanna. Un marito e un lavoro. («Mi sono ricostruita una vita lottando con le unghie e con i denti»). E l’impegno nelle scuole per raccontare la sua vita e quella di Rita. La piccola Rita che ancora non conosce pace. La sua tomba è ancora senza nome perché la madre non ha accettato il “tradimento” e ne dà la responsabilità proprio a Piera che neanche quest’anno, in occasione del ventesimo anniversario, ha potuto partecipare al ricordo al cimitero, col vescovo di Mazara, Mogavero e don Luigi Ciotti. Che nella postfazione al libro le dedica queste delicate e forti parole: «Cara Piera, aveva davvero ragione Paolo Borsellino quando incoraggiava quella giovane donna a resistere. Ragione nel prospettarti una vita certo difficile, ma vera e intensa. Una vita viva».