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QUELLI DEL CONCILIO/1. Cottier, il Vaticano II e l'inizio di un’era nuova

Filippo Rizzi mercoledì 25 aprile 2012
​Compie 90 anni proprio oggi e dal suo appartamento in Vaticano il domenicano teologo emerito della casa pontificia e cardinale svizzero Georges Marie Cottier ripensa al Concilio. Dall’elezione di Giovanni XXIII («Onestamente ero stupito e anche un po’ sconvolto per la scelta di questo anziano papa. Alcuni ambienti della Resistenza non avevano affatto apprezzato Roncalli durante gli anni della sua nunziatura a Parigi. Vedi come ci si può sbagliare! Ma fin dal primo discorso ho pensato: "Una nuova era inizia con quest’uomo"») ai fermenti degli anni che precedettero l’assise ecumenica. Una voglia di cambiamento che si respirava soprattutto tra gli ambienti teologici non romani; e l’anziano porporato, che fu «esperto» del Vaticano II a partire dalla seconda sessione, torna con gratitudine al vescovo francese Charles de Provenchères che lo volle suo teologo privato all’assise. Per il giovane padre Cottier il Concilio rappresentò soprattutto un cantiere aperto sulla teologia: «Da buono studioso domenicano mi preparai con largo anticipo, cercando di rispondere alle tante attese che sentivo. La mia formazione mi legava ai Piccoli Fratelli di Gesù e in particolare al mio confratello domenicano Jacques Loew, prete-operaio al porto di Marsiglia. Un religioso stimato addirittura dal severissimo cardinale Alfredo Ottaviani! Con lui redassi, in uno chalet sulle Alpi francesi, un libro sulle sfide che un Concilio avrebbe dovuto accogliere; un testo a mio giudizio ancora attuale e che ebbe un discreto successo: Dinamismo della fede e incredulità».Eminenza, che giudizio conserva oggi della commissione preparatoria e della prima sessione del Concilio?«Ricordo che rimasi favorevolmente impressionato dal fatto che due grandi nomi come Congar e De Lubac erano stati nominati in quella commissione teologica. Il Concilio poteva presentarsi allora come una grande chance per la Chiesa, ma non si sapeva come si sarebbe sviluppato; c’era anche il rischio di muoversi lungo un orizzonte stretto. Monsignor de Provenchères aveva avuto tutti gli schemi delle università pontificie romane ed erano dei testi classici che ignoravano – ahimé – molti problemi che molto discussi nella Chiesa. Ricordo che, confrontandomi con Charles Journet sul testo della Rivelazione, la nostra impressione fu la stessa, cioé che mancasse di respiro. Studiai tutto quel materiale, comprese le osservazioni sui testi che ovviamente erano scritte in latino…».Una situazione, in quel lontano ottobre 1962, che poi si sbloccò grazie alla «rivolta» dei vescovi contro la Curia romana…«Fu veramente così. Grazie alla reazione di molti vescovi – belgi, francesi e tedeschi – e in particolare del cardinale Achille Liénart venne rifiutata l’impostazione voluta dalla Curia romana di votare delle liste "bloccate" per nominare i membri della commissioni. Si chiese più tempo per permettere di conoscersi meglio, soprattutto tra i Padri conciliari. La richiesta fu accettata. Tutto questo ha sbloccato le cose. C’erano ancora molte inibizioni tra i vescovi. Monsignor de Provenchères, veramente un uomo di Dio, aveva subìto anche lui un intervento della Curia a proposito di un catechismo francese. Molti testi preliminari sono dunque finiti nel dimenticatoio, ed è stato meglio così, mentre il Concilio si è concentrato su un certo numero di temi essenziali per la Chiesa».Un documento a cui lei ha collaborato e che accese gli animi è stata la dichiarazione «Dignitatis humanae». Perché l’elaborazione fu così faticosa?«È stato uno dei testi più combattuti del Concilio: fu approvato a maggioranza malgrado l’opposizione irriducibile di monsignor Marcel Lefebvre. All’epoca – devo ammettere – non ci appariva come un leader; agiva all’ombra di monsignor Luigi Carli, vescovo di Segni, uomo molto battagliero e contrario tra l’altro alla collegialità. Ricordo che Carli parlava un bellissimo latino ed era in sintonia col cardinale Ottaviani che precisò il suo pensiero ma alla fine non si oppose al Papa. Chi ebbe un ruolo chiave per la stesura di quel documento è stato il gesuita americano John Courtney Murray, scelto anche perché proveniva da un Paese patria del pluralismo religioso e dove soprattutto il cattolicesimo rappresentava una confessione di minoranza rispetto ai protestanti, e quindi più adatto di altri a spiegare il tema della libertà religiosa. I vescovi americani hanno dimostrato che la libertà non era un’arma contro la religione, mentre noi europei avevamo sempre il modello del cristianesimo come religione di Stato. Rammento che su questo argomento così spinoso e che tanto divise gli animi del Concilio, su richiesta del padre Jean Daniélou, scrissi qualche articolo per la rivista dei gesuiti francesi Études».L’ascendente del cardinale Journet su questa dichiarazione fu veramente rilevante?«Journet era molto favorevole a questo testo e si confrontò moltissimo su questo argomento con Jacques Maritain, con cui condivideva la stessa opinione a riguardo. Per fortuna grazie a Journet, da poco nominato cardinale e che accompagnai da perito alla quarta sessione, il Concilio ha capito che la verità ha certamente dei diritti, ma che le persone, ogni persona, ne hanno di più fondamentali: è la persona che cerca la verità e ha il dovere di aderirvi quando la trova. Ma è un dovere davanti a Dio, non davanti allo Stato. Su tutto questo Journet diede dei chiarimenti importanti. Era conosciuto come un grande tomista, un teologo classico. Il fatto che sostenesse questo documento ha permesso a numerosi vescovi conservatori di tranquillizzarsi e di accettare la versione finale».Dei grandi teologi del Concilio, quali incontri le rimangono ancora impressi?«Beh, certamente mi colpì la grande laboriosità di Yves-Marie Congar, ma anche la sua diversa visione teologica ed ecclesiologica rispetto a Jean Daniélou. Mi impressionò, ad esempio, la fatica redazionale che impegnò il sacerdote belga Gerard Philips per preparare le bozze e gli schemi della Lumen Gentium. E poi l’intelligenza e l’irruenza vulcanica di Karl Rahner di cui, a mio avviso, già allora erano in nuce certe critiche alla Chiesa che si concretizzeranno nel post-Concilio. Conservo poi un bellissimo ricordo di Giuseppe Dossetti: avvertii in lui un animo molto spirituale come era molto – oserei dire – marcata la sua esperienza alla Costituente italiana. Ma ci siamo ben intesi».Un altro documento che le è rimasto impresso nel cuore è sicuramente la dichiarazione «Nostra Aetate». Su richiesta di padre Congar nel 1966 lei redigerà un volume di commento a questo testo. Che cosa ha significato per lei?«Per me è stato una delle pagine più belle del Concilio. Mi sono appassionato come studioso alle religioni non cristiane. E poi questa dichiarazione nasce da una grande intuizione, dall’incontro del 13 giugno 1960 tra Jules Isaac e Giovanni XXIII; uno degli artefici e fautori sotterranei ne era stato proprio de Provenchères, nella cui diocesi viveva lo storico ebreo francese. Si tratterà di un’udienza che segnerà un punto di svolta teologico: Isaac presentò al Papa un dossier delle sue ricerche, compiute negli anni dopo la seconda guerra mondiale, sulle radici dell’antisemitismo; la speranza era quella che quei documenti potessero spronare il futuro Concilio a un cambio sostanziale nell’atteggiamento della Chiesa verso l’ebraismo. Quell’incontro fu un nuovo inizio per le relazioni tra ebrei e cristiani, che sarà suggellato dalla promulgazione della dichiarazione Nostra aetate».Anche questo testo ebbe una gestazione travagliatissima…«Fu veramente così: si lottò intorno ad ogni termine. Una prima visione diceva che la Chiesa "condanna e deplora" ogni forma di antisemitismo. Alla fine la parola "condanna" scomparirà dalla dichiarazione finale. Si arrivò a questo compromesso per non irritare le piccole Chiese del Medio Oriente perché, a loro giudizio, una condanna esplicita, avrebbe significato un riconoscimento implicito dello Stato d’Israele. Ricordo l’amarezza di Maritain, Congar e Journet per non essere arrivati a una condanna più esplicita. Ma certamente fu un successo per i fautori delle relazioni con il popolo ebraico, in primis il cardinale Agostino Bea. La Nostra Aetate rappresentò la prima pietra del dialogo interreligioso e senza questo documento non si sarebbe potuti arrivare all’incontro di Assisi nel 1986».Lei ha sempre sostenuto che il grande spirito del Concilio ebbe come principale regista papa Paolo VI. Può spiegare il perché?«Credo soprattutto per come ha guidato quelle assise: nessuno né tra i novatori né tra i conservatori ha potuto additare in lui gesti di parzialità. E poi la sua scelta di far decantare le discussioni più accese come, ad esempio, quella sulla collegialità e sul primato petrino con il famoso documento Nota Praevia che diede una lettura interpretativa più autorevole e più giusta della questione in discussione. Io credo che abbia insegnato a tutti i padri conciliari il senso di una "collegialità vissuta", intuendo prima di altri che un Concilio non era un’assemblea parlamentare».