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IN VIAGGIO FRA LE MOLECOLE. Con la chimica «bio» la plastica fa l’«eco»

Luigi Dell'Aglio sabato 4 giugno 2011
Il futuro della nuova chimica si chiama biobased chemicals: prodotti chimici che escono da «bio-raffinerie», cioè biomateriali e biocombustibili provenienti da biomasse vegetali, residui agro-industriali e rifiuti organici. La nuova chimica agisce sfruttando processi naturali e alleandosi con le biotec­nologie. E poiché la chimica «che non fa male» userà prodotti agri­coli per fornire energia e composti chimici alla collettività, si atte­nuerà la dipendenza dal petrolio, le risorse del pianeta non saranno dilapidate e l’agricoltura riceverà impulso e attirerà nei campi le im­prese e il lavoro. In questa direzio­ne e con questi obiettivi si orienta­no le ricerche e il pensiero scienti­fico di Fabio Fava, ordinario di Bio­tecnologie industriali e ambientali all’Università di Bologna. Il quadro dei suoi interessi si completa se si considera che il professore ha una laurea (con 110 e lode) in Chimica e Tecnologie farmaceutiche. Ci sa­rebbe infatti da parlare anche di u­na sua inclinazione nascosta, quella per la medicina. Da giovane ammirava profondamente questa scienza «perché guariva i bambi­ni». Poi l’amore per la medicina è confluito nella passione per la chi­mica, rendendola più intensa: «I farmaci sono composti chimici e stiamo riuscendo a ridurne la tos­sicità potenziale».Professore, le bio-raffinerie saran­no le fabbriche del futuro?«Ci daranno un’ampia gamma di prodotti chimici, tutti bio-compa­tibili e bio-degradabili, che servo­no in molti settori: dall’industria chimica alla tessile, dall’energia alla cosmetica, dall’edilizia alla farmaceutica. Le materie prime che le bio-raffinerie trasformeranno sono bio-masse lignocellulosiche, sottoprodotti e scarti dell’industria agro-alimentare. Questa 'rivolu­zione' presenta enormi vantaggi. I processi industriali non solo ri­sparmieranno acqua ed energia ma produrranno poca anidride carbonica atmosferica (uno dei maggiori responsabili dei cambia­menti climatici) e anzi ne consu­meranno una notevole quantità. Le bio-raffinerie, alternative al pe­trolio, inquinante e costoso, sono i pilastri della bio-based economy, la nuova realtà produttiva che si diffonde in molti Paesi europei e ora anche in Italia».La «paura della chimica» basta a spiegare perché, negli ultimi 50 anni, si sono manifestate reazioni contrastanti nei suoi confronti?«La chimica ha dato grande splen­dore scientifico-tecnologico ed e­conomico al nostro Paese negli Anni ’60 e per oltre un ventennio, fino al 1985. Ma il settore è cresciuto in maniera tumultuosa; manca­va una conoscenza puntuale del­l’impatto che i processi chimici a­vevano sulla salute dell’uomo e sull’habitat; si usavano e venivano immessi nell’ambiente reagenti e prodotti della sintesi chimica in­dustriale. Tutto ciò ha creato que­stioni ambientali che ancora oggi si riscontrano in maniera tangibile nelle tante aree contaminate del Paese. Negli ultimi 15 anni, il set­tore ha compiuto però straordinari passi avanti sul fronte della sicu­rezza e dell’ambiente. Grazie a processi produttivi più 'puliti' e sostenibili, con l’aiuto della chimi­ca è stato possibile costruire veicoli e aerei più leggeri, rendere le nostre case più sicure, confortevoli e più efficienti dal punto di vista energetico, migliorare la qualità della vita».Come si provvede a risanare le aree inquinate?«Ho dedicato la mia vita di ricerca­tore anche alla decontaminazione dell’ambiente. È con l’impiego di microorganismi che avviene la bio-remediation , cioè la rimozione di inquinanti chimici da siti, suoli, sedimenti e acque inquinate. Oggi disponiamo di tecniche e processi biotecnologici per praticare moni­toraggio e bonifica delle aree compromesse».I cittadini sono informati di questi progressi della chimica?«I più interessati sono i giovani. La mia esperienza di professore uni­versitario, di relatore in convegni scientifici e di divulgatore, mi ha permesso di constatare che i gio­vani prestano vivissima attenzione a questi temi. Sono attratti dal fat­to che i materiali che hanno all’in­terno delle loro abitazioni, i loro vestiti, la plastica dei loro cellulari e della loro moto o auto, come il combustibile per farle andare, po­tranno presto provenire da bio­masse vegetali o da rifiuti organici e residui agro-industriali oggi smaltiti in discarica con ragguar­devoli costi ambientali ed econo­mici. Tuttavia bisogna andare incontro a questo interesse dei gio­vani; l’Anno internazionale della Chimica può essere una via privilegiata per raggiungere l’opinione pubblica, oggi distratta da un’informazione confusa e strilla­ta. È indispensabile riuscire a co­municare in maniera efficace e precisa, per ripristinare nell’opi­nione pubblica il ruolo centrale della chimica, oggi il quarto setto­re manifatturiero nel nostro Pae­se».Che cosa va spiegato ai giovani volenterosi che sarebbero pronti a incamminarsi sulle vie della chi­mica e a quelli che intendono al­meno costruirsi un’opinione av­veduta al riguardo?«La chimica italiana è nel circuito di quella europea, che è leader a li­vello mondiale. Il fatturato della nostra industria chimica è di circa 50 miliardi di euro. Ma ai giovani l’informazione va portata illustrando tutta la storia della chimica italiana; quella gloriosa, culmina­ta nel Nobel a Natta nel 1963, poi la fase del disa­gio ambientale e infine quella, attuale, della ri­presa nella sicurezza e nella sostenibilità. Le e­missioni mondiali di gas serra pro­dotte dall’industria chimica am­montano a 3,3 miliardi di tonnel­late annue di anidride carbonica; quelle evitate oscillano tra 6,9 e 8,5 miliardi di tonnellate all’anno. Ac­cusato di inquinare, e di infliggere alla Terra i cambiamenti climatici non previsti, il settore chimico in realtà contribuisce alla rimozione dei gas serra».