Escatologia. Con l’Incarnazione Dio salverà la creazione
Francisco de Zurbaran, “Agnus Dei” (1635-1640)
Deep Incarnation. Non è il titolo di un film hollywoodiano fra fantascienza e religione. Ma considerando che si tratta di vera teologia, Incarnazione profonda può far tremare le vene dei polsi. Ogni aggettivo che venga aggiunto a Incarnazione rischia di ridurne la portata; in questo caso la vuole estendere. È un nuovo spazio di riflessione teologica che, da un paio di decenni in particolare, cerca di fornire un orizzonte più adeguato alle sfide che le scienze stanno ponendo all’uomo e alla fede. In altri termini, una delle impasse della teologia riguarda oggi un pensiero che sappia dotarsi di un nuovo fraseggio e vocabolario per comprendere l’ampliamento che l’ecologia e le questioni della cura del creato stanno sollevando anche al credente. La teologia sente, indubbiamente, il carico di responsabilità nel fornire all’uomo una prospettiva che comprenda non soltanto i dubbi ma tenga conto anche delle questioni sociali e morali urgenti per la vita del pianeta stesso.
Oggi molti si chiedono in che misura le realtà create, non soltanto la specie umana, ma anche le altre animali, le piante e le cose inanimate, la creazione insomma, rientri nel piano salvifico divino. In che misura l’evoluzione, con le sue spietate regole, può conciliarsi con l’azione divina? Il teologo luterano danese Niels Henrik Gregersen formulò per la prima volta la questione dell’“incarnazione profonda” nel 2001. La questione era stata ripresa e rilanciata poi dal teologo australiano Denis Edwards, a lungo professore di teologia presso l’Università Cattolica d’Australia, che per buona parte della sua vita aveva sviluppato una teologia dell’ecologia (per esempio, nel saggio L’ecologia al centro della fede, EMP, 2008). Nel 2019, l’anno in cui Edwards morì, venne pubblicato il suo saggio specifico, che ora Queriniana traduce, intitolato: Incarnazione profonda. Sofferenza di Dio e redenzione delle creature (pagine 210, euro 23,00). L’autore sottolinea l’urgenza di una interrelazione di teologia della creazione, cristologia e pneumatologia per comprendere il coinvolgimento divino nel nostro mondo corporeo. Ricorda la teologia dell’evoluzione di Karl Rahner e nel libro ricorre, meno frequente, anche il discorso di Teilhard de Chardin.
Anzitutto, la domanda di Edwards riguarda il fondamento cristologico per una teologia ecologica cristiana: quale relazione fra mondo naturale e vita, morte e resurrezione di Cristo? E ricorda che l’errore è stato forse di concentrarsi su una teologia della creazione, isolandola dalla teologia della incarnazione e della redenzione. Dopo la Laudato sì’, la riflessione sulla creazione è diventata più urgente, considerando anche le questioni sociali e antropologiche che si legano al discorso ecologico e alle analisi critiche dell’Antropocene. Urge «una risposta teologica alla corruzione e alla sofferenza, momenti intrinseci di una visione del mondo». Per la biologia evolutiva morte e dolore sono intrinseci a un mondo in evoluzione (che procede per crisi e assestamenti, si potrebbe dire) e non possono più essere spiegati attribuendone la responsabilità al peccato umano.
Ma Gregersen sostiene che, in realtà, l’Incarnazione profonda potrebbe offrire una risposta al problema che vede il mondo come “pacchetto completo”. In un’ottica evolutiva il dolore ha una funzione positiva, osserva Edwards, incrementando lo spitito di adattamento, mentre la morte diventa essenziale al ciclo delle generazioni. Ma questo non offre risposte soddisfacenti a chi soffre. Già Gregersen poneva la necessità di una “cristologia alta” dove la verità di Dio è rivelata, secondo la Theologia Crucis di Lutero, nell’esperienza di angoscia, umiliazione, dolore e morte di Cristo. Ma ampliandone la portata alla luce della scienza contemporanea, il teologo danese vede l’Incarnazione profonda come parte integrante del fenomeno evolutivo, dove l’amore divino, che si rende espiativo, abbraccia l’intera creazione. Vale a dire, scrive Edwards, che «il valore teologico delle montagne, dei mari, degli animali, delle piante, del clima del nostro pianeta, della Via Lattea e di tutto l’universo osservabile, include l’intera storia dell’autodonarsi di Dio alle creature nella creazione, nell’incarnazione e nella trasfigurazione finale». Altri hanno adottato questo orizzonte, da Elizabeth Johnson, teologa americana che ha sviluppato una visione teologica femminista (Colei che è, Queriniana), Celia Deane-Drummond, ecoteologa, è direttrice dell’Istituto di ricerca Laudato Si’, Christopher Southgate, teologo attivo sul versante dei rapporti con l’evoluzione, Richard Bauckham, teologo e biblista anglicano. Il libro dà conto delle loro riflessioni. Il termine di partenza del confronto fu il simposio che si svolse a Helsingør, in Danimarca, nel 2011.
Per cristologia alta si deve anche pensare, osserva Edwards raccogliendo uno sviluppo del pensiero francescano di san Bonaventura, che «la croce di Gesù è come un microcosmo in cui la sofferenza del macrocosmo è rappresentata e vissuta». Visione che introduce il tema del “corpo cosmico” di Cristo evocato nella Lettera ai romani (8,18-23). Ma l’Incarnazione profonda viene così pensata come teologia pienamente trinitaria il cui esito è “redimere e trasformare” perché «Il Logos-Figlio di Dio comprende non soltanto le bellezze dell’ordine cosmico, ma anche le brutture della cattiveria, del dolore e della morte...». Naturalmente, secondo la più classica delle teologie, «la crudele spietatezza della selezione naturale è parte della creatività di Dio, ma non ne rivela la natura di Dio».
Secondo Elizabeth Johnson, «la presenza amorosa di Dio nella sofferenza delle sue creature e una delle cose più significative che la teologia possa affermare», così che se si parla di Incarnazione profonda si dovrà parlare anche di resurrezione profonda, che non riguarda solo l’umanità ma l’intera creazione.
Hans Urs von Balthasar nella Teologia dei tre giorni affermava: «C’è un calvario lassù, da cui tutto è derivato». Aveva appena scritto che «il sacrificio di Cristo è iniziato prima che venisse nel mondo e la sua croce era quella dell’“agnello sgozzato fin dalle origini del mondo”». La Kreuzesfrage come va risolta allora? È necessario comprendere prima il mistero della croce piantata nel cuore della Trinità, come sembra pensare Edith Stein. Allora forse solo la mistica può entrare nel “profondo” di una redenzione cosmica se, come notava ancora Balthasar: «Dio solo va fino in fondo all’abbandono di Dio, Dio porta la privazione di Dio, Dio lascia Dio affondare nella derelizione». Ma questo rende forse troppo razionale e riduttiva, considerata alla luce delle questioni ecologiche di oggi, la stessa “Incarnazione profonda”.