Agorà

Storia delle idee. Colonialismo, la grande rimozione dell'Europa

Giuseppe Bonvegna sabato 14 agosto 2021

Più di due secoli fa, nel 1794, Robespierre, poco prima di salire sulla ghigliottina per volontà della reazione termidoriana, liberò gli schiavi della colonia francese della parte ovest dell’isola caraibica di Hispaniola/Santo Domingo: nel 1802 Napoleone Bonaparte li riportò in schiavitù, ma ormai quella emancipazione aveva provocato la prima decolonizzazione della storia, portando alla nascita della Repubblica di Haiti. Riparlare oggi di colonialismo (dopo la sua fine sotto i colpi delle due decolonizzazioni novecentesche) significa riesumare, dal cuore dell’Età moderna, un problema (il rapporto con l’altro) sul quale l’illuminismo europeo ha giocato la sua partita più importante: e, dato che noi siamo figli anche dell’epoca dei lumi, si tratta di una partita che non è ancora giunta al termine. Il problema era (ed è) sempre quello che divide il progressismo dei liberatori da un conservatorismo che vuol lasciare le cose intatte. Strano destino della storia, verrebbe però quasi da dire: se l’inventore del terrore totalitario fu il precursore di Abramo Lincoln, mentre il generale corso, padre dei risorgimenti nazionali liberali dell’Ottocento (compreso quello italiano), vestì i panni del piantatore schiavista. La verità, come emerge dal recente volume di Gustavo Gozzi edito dal Mulino, è che la liberazione andava, già ab origine, a braccetto col totalitarismo robespierriano, di cui Bonaparte fu figlio: perché il colonialismo rappresenta il “lato oscuro” della coscienza europea, con il quale né i progressisti alla Robespierre né i conservatori alla Bonaparte seppero mai fare i conti fino in fondo ( Eredità coloniale e costruzione dell’Europa. Una questione irrisolta: il rimosso della coscienza europea; pagine 304, euro 23,00). Infatti, nonostante la Dichiarazione universale francese dei diritti dell’uomo e del cittadino, la liberazione divenne la premessa di un suprematismo “di ritorno” in palese violazione del principio di legalità: rilanciato poi da quanti, nell’Ottocento, presero il testimone della Rivoluzione inventando il liberalismo europeo e l’imperialismo progressista statunitense (prima del partito repubblicano e poi di quello democratico) fortemente basato sul mito dell’efficienza produttiva della fabbrica gestita dall’uomo bianco. Il melting pot euro-indigeno, che grazie a Isabella di Castiglia e a suo nipote Carlo d’Asburgo, si era realizzato nei territori della Nuova Spagna e della Nuova Castiglia in America centro-meridionale a partire dal XVI secolo sulla base del pensiero cristiano, non si ripeté nell’America settentrionale franco-inglese, né in Africa e in Estremo Oriente. E questa mancanza pone inevitabilmente un interrogativo non certo a san Tommaso, ma a Montesquieu, Rousseau, Diderot, Adam Smith e Kant, dato che le tre Rivoluzioni politiche dell’Età moderna (inglese, americana e francese) sono figlie dell’Illuminismo: perché la teorizzazione illuministica del diritto cosmopolitico e della non inferiorità di tahitiani, ottentotti e persiani rispetto agli europei non fu sufficiente, nel secolo successivo, a impedire a Karl Marx di giustificare «i più vili interessi » del colonialismo britannico in India e in Cina come tappa necessaria del progresso storico? La risposta è che, alla base della libertà illuministica, vive un inquietante non detto consistente in quell’illiberalismo di fondo del pensiero politico inglese della seconda metà del XVII secolo: il cui massimo esponente ( John Locke) sosteneva che le regioni del Nuovo Mondo fossero terra nullius in quanto le popolazioni indigene che vi risiedevano non coltivavano la terra e non avevano scambi monetari… Questo è il motivo per cui, nei territori a nord della Florida, i pellerossa e gli schiavi neri non ebbero un loro Las Casas.