Agorà

Il personaggio. Gianni Clerici: i novant'anni dello scriba del tennis

Massimiliano Castellani mercoledì 22 luglio 2020

Gianni Clerici, 90 anni venerdì

Se il meglio del cantautorato nostrano sta dentro l’opera dei due Lucio, Battisti e Dalla, la più elevata letteratura dello sport si è condensata tra le righe e l’inchiostro purissimo versato dai “tre Gianni”. Infatti, c’è stato un Gianni, Brera, aedo major del calcio e del ciclismo e dopo di lui un altro Gianni, Mura, cantore, aggiornato al nuovo millennio, delle storie di cuoio e delle pagine gialle del Tour. Così ora, l’aznavouriano «ed io tra di voi», potrebbe intonarlo lui, lo Scriba massimodel tennis, Gianni Clerici. Il terzo Gianni c’è, vive e lotta con noi dalla sua casa sul lago di Como, e in questo tempo impoetico e virale, venerdì schiaccia sotto la rete dei 90 anni. I nove aurei decenni de «l’uomo del tennis», come ebbe a salutarlo frettolosamente nel salotto letterario del Bagutta la sua madrina Maria Bellonci, forse ignara del giudizio dato dall’altra Maria, la somma filologa Corti che, allo stile linguistico clericiano riconosceva il crisma idiomatico del “lombardese”. Ma se per uno sprezzante Umberto Eco «Brera è un Gadda spiegato al popolo », per noi Clerici è un dandy alla Dorian Gray letto dall’alta società, misto a un più popolare Giorgio Bassani da pagina di quotidiano (ha cominciato al Giorno nel 1956, proseguendo per Repubblica fino ad oggi). Discendente diretto del vate del “prototennis”, l’abate Antonio Scaino da Salò che, alla corte degli estensi, nella Ferrara del tennista-scrittore Bassani, diede alle stampe il trattato cinquecentesco Del giuoco della palla. Caposaldo arricchito e completato dal suo monumentale ed esaustivo 500 anni di Tennis. Clerici storico, certo, enciclopedico diderotiano, ma dotato da sempre di sublimi smash narrativi, (da leggere l’ultimo romanzo 2084 La dittatura delle donne; Baldini + Castoldi, pagine 135, euro 16,00) quanto di scavalcanti lob poetici.

I suoi versi da postumo in vita furono apprezzati dal poeta laureato, lo sportivo ed elegiaco Giovanni Raboni che nella poesia di Clerici trovò «una sorta di ansiosa fermezza, di sfuocata precisione, che è, ai miei occhi una qualità rara». Rarità, anche agli occhi di Italo Calvino, per cui Clerici è semplicemente «uno scrittore prestato al tennis». Trasformista fregoliano, sfugge ad ogni catalogazione, assurgendo a unico biografo all’altezza del suo personaggio. «Allevato con amore, forse eccessivo e con poca disciplina. Lasciato libero di frequentare il liceo, di ritirarmi da scuola per tentare l’avventura del tennis, di iscrivermi all’università, per abbandonarla e poi riprenderla. Libertà grande, la mia, che era anche tale perché i miei genitori erano privi di modelli, per me, attendibili », scrive di sé in Quello del tennis. Storia della mia vita e di uomini più noti di me (Mondadori). L’inguaribile febbre per tutti i suoi 90 anni, il tennis, lo colpì precocemente. Sviando la Baronessa Kroff «che si stupiva che un bambino di sei anni non avesse mai sentito nominare Gogol», incrociò lo sguardo e l’aurea di un’icona: Alan Little, il bibliotecario di Wimbledon. Alla teoria del narratore in erba e del futuro storyteller del green londinese, fece seguire la pratica: le lezioni al Circolo Tennis di Alassio (presieduto da Lord Daniel Hanbury e dal segretario Goodchild), impartitegli dal maestro anglo-americano Sweet. «Ai miei tempi il tennis era ritenuto un gioco aristocratico, se erano gli aristocratici a giudicarlo. Per altri un gioco da signorine, il sissy game anglosassone », ricorda caustico lo Scriba. Molti critici musicali non hanno mai suonato uno strumento e spesso non sanno neppure leggere lo spartito, Clerici invece ha imparato presto a pizzicare le corde della racchetta e ha vergato magistralmente interi capitoli dei libretti d’opera e dell’epica eroica dei Gesti bianchi, oltre a far iscrivere il suo nome sull’Albo d’oro del ranking.

Campione italiano di doppio, in coppia con Fausto Gardini nel 1947 e nel ’48’. Nel 1950, la stagione mitica di Costa Azzurra, a Vichy vinceva la “Coppa de Galea” e due anni dopo trionfava anche al “Monte Carlo New Eve Tournement”. Non era il più forte di quella “generazione di fenomeni” composta dai vari Pietrangeli, Sirola, Merlo, Gardini e Bergamo, ma lo Scriba in calzoncini e maglietta, rigorosamente bianca, almeno per un turno ha calcato l’erba sempre verde di Wimbledon e “scivolato”, per ribattere colpo su colpo, sulla terra rossa parigina del Roland Garros. “Snob e stupid nel tennis”, l’articolo al vetriolo titolato dal folberciclofilo Brera, segnò idealmente la sua battuta, d’arresto, con il tennis giocato, ma almeno gli aprì le porte della più straordinaria delle redazioni sportive, quella del Giorno di Mattei. «Io ho tre croci, una grandissima Enrico Mattei e due piccoline, Giancarlo Fusco e Gianni Clerici », soleva ripetere il direttore Italo Pietra che al più grande narratore orale mai avvistato per le strade e i bar di questo Paese, Fusco, aveva assegnato la prima column con foto (assieme a quella dell’americano Art Buchwald), mentre al “Brera del tennis”, Clerici, concesse carta bianca per coniare un nuovo stile di reportage dello sport. Lo stile di chi ha saputo raccontare con la stessa poesia e intensità romantica la «Divina » Suzanne Lenglen, così come il suo «Idolo» dimenticato, Gianni Cucelli, nato Giovanni Kucel, in terra d’Istria (a Fiume).

Giovane staffettista e poi partigiano della bella scrittura Clerici, ha saputo inseguire la traiettoria della pallina e al contempo uscire dalle righe del campo per viaggiare, conoscere, interrogare uomini e donne di tutte le fedi, forte anche di una laurea in Storia delle religioni. Il tennis con la penna dello Scriba, a tratti del match ha rimbalzato tra la letteratura e l’ascetismo mistico alla Siddharta. Un giorno, racconta orgoglioso, di essere salito apposta fino a Montagnola per avvicinare il Nobel adorato, Hermann Hesse. E dei tanti libri letti, la risposta al suo mestiere di vivere, sempre in bilico tra il ramo lacustre dello scrittore e quello del giornalista, l’ha trovata proprio in un paragrafo di Da una biblioteca della letteratura universale. «L’attività di un cosiddetto libero scrittore è considerata oggi una “professione” - scrive Hesse - , probabilmente perché esercitata come un mestiere qualsiasi da molti che non hanno per essa alcuna vocazione… Perciò ogni libero scrittore trova difficoltà a orientarsi nella sua ambigua situazione, a metà tra il redditiere e lo scrittore non libero, e cioè il giornalista ». Da grande cerimoniere del giornalismo aulico applicato al tennis, Clerici ha scomunicato i tanti, troppi improvvisatori dei cronisti dei Gesti bianchi. Non fa sconti neppure alla buonanima cult americana di David Foster Wallace che con il suo «assurdo» Federer come esperienza religiosa «ha compiuto un’operazione molto giornalistica, dico giornalistica nell’aspetto negativo del termine, come di quelli che scrivono articoli scopiazzando». L’originalità è alla base dello stile, di colui che lo statistico e tassonomico Rino Tommasi, suo mentore di doppio in telecronaca per centinaia di slam, chiama affettuosamente il “Dottor Divago”. «Non sempre nelle cronache di Gianni troverete il risultato dell’incontro, ma troverete sempre la spiegazione della vittoria di un giocatore sul proprio avversario», ha detto il numerologo del suo amato Gianni. Tommasi ha avuto l’onore e l’onere di condividere un tratto importante del lungo cammino in presa diretta con Clerici, e quando nel febbraio scorso, in occasione dei suoi 86 anni Ubaldo Scanagatta gli ha domandato: «Ci arriviamo a 100, Rino?» e Tommasi pronto gli ha risposto: «Certo che sì, passeggiando!» Auguri Scriba Clerici, fino a 100 anni, passeggiando.