Agorà

Intervista. Cinciarini, la pallacanestro formato famiglia

Antonio Giuliano sabato 19 novembre 2016

Daniele Cinciarini, 33 anni (Gennaro Buco)

La pallacanestro è una questione di famiglia se di cognome fai Cinciarini. Lui è Daniele, un protagonista della sorprendente Pasta Reggia Caserta di questo campionato. Suo fratello minore, Andrea, è il capitano della corazzata Olimpia Milano targata Emporio Armani. Ma papà Franco Cinciarini e sua moglie Cristina, oltre a poter vantare due figli in Serie A, sono stati a loro volta giocatori professionisti ad alti livelli. «Per la verità - aggiunge Daniele - anche il nonno materno è stato cestista in Serie B. Non a caso a due anni mi avevano già messo un pallone in mano. Ma i miei genitori ci hanno lasciato liberi: grazie a loro, io e mio fratello abbiamo avuto la possibilità di praticare tanti sport, ma abbiamo scelto il basket, l’unico che ti regala emozioni continue». Guardia di 194 centimetri, 33 anni, Daniele Cinciarini è riuscito a lasciare il segno in tutte le serie in cui ha giocato, da quelle minori al massimo campionato: ha esordito in A nel 2006 e due anni dopo anche in Nazionale con coach Recalcati.

A Caserta si sta togliendo altre soddisfazioni nonostante qualche problema societario.

«Siamo partiti forte, nessuno se l’aspettava. Ma bisogna ringraziare la società per aver allestito innanzitutto un gruppo di ottime persone fuori dal campo. Sappiamo che la società sta cercando forze nuove per il futuro e abbiamo fiducia in Iavazzi, che è un tifoso prima di essere un presidente. Caserta è una piazza storica e da piccolo guardavo Gentile, Esposito e Dell’Agnello il nostro coach che ha plasmato la squadra con la tenacia di quando giocava. Qui si sente tutto il calore del Sud, ti fermano per strada e vogliono offrirti per forza qualcosa al bar… C’è un feeling particolare col pubblico».

Le squadre del Sud sono la novità di una Serie A che sembra a volte un allenamento per Milano.

«Purtroppo l’Armani gioca un campionato a parte. Non c’è una squadra antagonista. Ci sono però sorprese come noi o Capo d’Orlando in cui gli allenatori hanno il coraggio di far giocare gli italiani. Oggi nella nostra pallacanestro ci sono troppi stranieri, ma i ragazzi cresciuti nei vivai sono molto meglio della metà degli americani che arrivano. Bisogna far qualcosa, non regge più la scusa che gli italiani guadagnano di più».

Sta studiando da dirigente?

«No, voglio ancora giocare per tanti anni come Mario Boni. Negli ultimi sei anni credo di aver raggiunto la maturità piena, oggi conosco i miei pregi e i miei difetti. La mia carriera è stato un crescendo con un unico momento di buio a Pesaro, purtroppo proprio la città in cui sono cresciuto... Eppure lì è cominciata la mia rinascita interiore grazie al compagno di squadra americano Casey Shaw che giocava e studiava la Bibbia. Lui evangelico mi ha spinto a riprendere in mano la mia educazione cattolica. Ho scoperto una vera pace rientrando in chiesa. E da allora non perdo la Messa nemmeno in trasferta. Oggi so che nulla avviene a caso. Anche l’incontro che mi ha cambiato la vita».

Quale?

«Quello con mia moglie, che ho sposato otto anni fa. Lei era una grande promessa del tennis, a livello giovanile era nel gruppo della Schiavone e della Pennetta. Ma quando stava per fare il salto tra i professionisti è stata coinvolta non per colpa sua in un incidente stradale mortale da cui è uscita viva per miracolo, anche grazie alle cinture di sicurezza. Nove mesi in un letto d’ospedale senza riuscire a muoversi e ben due operazioni. Si pensava che non sarebbe più riuscita ad usare un braccio. E invece alla fine ce l’ha fatta stupendo perfino i medici. Da allora si è rimessa sui libri, oggi ha tre lauree, e lavora come mental coach. Ammiro la sua intelligenza e la sua grande forza di volontà. Anch’io mi ritengo un guerriero, perché senza cuore disciplina e lavoro datemi dai miei genitori non sarei mai arrivato dalla C2 alla serie A. Ma il basket un giorno finirà, mentre l’incontro con mia moglie, con la quale condivido la fede cattolica, è un dono per sempre».

I continui paragoni con suo fratello la infastidiscono?

«Ci sono abituato. Ma è una fortuna aver avuto un fratello per allenarsi e crescere insieme. Ho ricordi fantastici delle sfide da bambini al campetto della chiesa con papà che faceva da arbitro. A volte doveva dividerci perché arrivavamo a spintonarci e discutere all’infinito sul tiro della vittoria. E chi perdeva poi tornava a casa a piedi a muso duro. Di sicuro dovevano portarci via perché saremmo rimasti ore e ore a giocare. C’è stata sempre una sana rivalità che ha fatto bene ad entrambi. Poi giochiamo in un ruolo diverso e abbiamo fatto scelte diverse. Lui ha giocato sempre in squadre di fascia superiore io son voluto partire dalla C2 perché volevo farmi la gavetta giocando sempre anche in serie minori».

C’è mai stata gelosia fra di voi?

«No, soltanto ammirazione reciproca. Sono molto contento per lui anche perché da un anno è diventato papà: penso sia stato il giorno più bello della sua vita. Noi due abbiamo realizzato il sogno di giocare insieme, in Nazionale ai Giochi del Mediterraneo a Pescara. E chissà in futuro anche in un club. È sempre stata una regola di noi fratelli sostenersi a vicenda e ricordarsi che siamo un orgoglio per i nostri genitori. A loro dobbiamo l’educazione ricevuta e qualche gene per fare questo sport che oggi è diventato anche un lavoro da “privilegiati”. Così quando i telecronisti, e perfino lo speaker del mio palazzetto, mi confondono con Andrea, ci ridiamo su e anche i miei si divertono: “Non vi preoccupate, tanto un Cincia c’è sempre”».