Agorà

Il personaggio. Ciampi. Caro amico ti scrivo

Massimiliano Castellani martedì 26 settembre 2017

Il cantautore livornese Piero Ciampi (1934-1980)

«I musicisti di Ciampi parlavano da soli, lo accompagnavano come un figlio che non vuole andare a scuola, mentre lui cantava i sospiri di una suora...». È uno dei tanti ricordi canori dell’ultimo vero seguace di Piero Ciampi, l’avvocato chansonnier Pino Pavone. Uno dei Maledetti amici del più irregolare dei poeti prestati al nostro cantar leggero. Pino Pavone il suo Piero continua a raccontarlo in musica. Grazie a Ciampi scoprì un talento cantautoriale che nel 1992 lo portò a vincere il Premio Tenco proprio con l’album Maledetti amici. Titolo che ricorre nella sua storia di «fratellanza» anche nel libro appena pubblicato Piero Ciampi. Maledetti amici (Aliberti, pagine 126, euro 14,00). «Più che una biografia, una passeggiata con Piero». Una camminata che inizia dall’incontro tra l’allora giovane studente in legge catanzarese, classe 1937, e Piero (1934), non ancora noto neppure ai francesi come “Piero Litaliano”.


«Lo conobbi l’estate del 1959 al Villaggio Mancuso, sulla Sila Piccola, dove andavo in vacanza con i miei genitori. È lì che vidi arrivare Piero con due disperati di Livorno che suonavano al Grande Albergo delle Fate». Poi venne il Trio Ciampi, composto da Piero e i suoi fratelli Paolo (morto suicida) e Roberto, che più tardi sarebbe entrato a lavorare nello studio legale di Pavone. Il leader carismatico del trio era uno dei figli “maledetti” di quella Livorno in cui Piero Ciampi stava al cantautorato come Amedeo Modigliani alla pittura. «Un pianto che si scioglie, la statua nella piazza, la vita che si sceglie, è il sogno di una pazza...». Questa la Livorno cantata da uno struggente Piero, «nato mezzo slavo, mezzo ebreo, mezzo cugino del futuro presidente Carlo Azeglio Ciampi – spiega Pavone –. Livorno incarnava sua mamma e quindi con la città aveva un rapporto di amore e odio. Quando ci tornava era giusto il tempo di mangiare l’adorato “5 più 5”, una specie di focaccia di ce- ci, e salutare furtivamente la madre». La mamma era Mira Poljak, montenegrina di origine ebrea: il suo grande amore spezzato e rivissuto, almeno in poesia, assieme alle assenze paterne. «Padre volevo vederti. Sono qui per questo. Vederti. Rivederti. Capisci. Ma tu ti stupisci. E così è il solito arrivederci». Versi di colui che per Gino Paoli «era il migliore di tutti noi». E quel «tutti noi», stava per tutta la scuola genovese, compreso il giovane Fabrizio De André che confessò all’amica Nanda Pivano: «Sono debitore in particolare a Piero Ciampi». E se l’altro amico fraterno Luigi Tenco lo avesse ascoltato quella sera d’autunno, poco prima del 27 gennaio del 1967 (il giorno in cui Tenco si suicidò), forse oggi gli sarebbe debitore della vita. «C’ero anche io con Piero e Luigi quella sera alla trattoria La Fiorentina, in piazza Fiume qui a Roma. A un tratto Ciampi iniziò ad alzare la voce: “Luigi non devi andare a Sanremo, tu non c’entri niente con quel mondo lì”. E Tenco furioso rispose: “Ma parli tu Piero, che non combini mai niente”. Luigi si alzò e se ne andò... Non lo avremmo più rivisto». Un altro dolore da aggiungere allo strazio di figlio abbandonato che combatteva il vuoto con quello della bottiglia. «Ma Ciampi era anche uno che sapeva ridere e assaporare come pochi il gusto della vita. Un gatto randagio che vagava nella notte per quella Roma splendida e più umana della “dolce vita”». Lo faceva in compagnia degli amici pittori, Franco Angeli e Mario Schifano, Aldo Turchiaro e improvvisando esilaranti siparietti teatrali con il genio e sodale Carmelo Bene. Quel poetico e farabutto esistere poi affluiva sincero come Il vino nei suoi dischi: dal primo Piero Litalianopubblicato dalla Cgd nel 1963, fino agli ultimi due, entrambi editi dalla Rca, Andare camminare lavorare e altri discorsi (1975) e il doppio e conclusivo Dentro e fuori del 1976. L’anno di una memorabile serata al Club Tenco che è forse la più straordinaria “esibizione con invettiva” rivolta al pubblico. «Straordinario fu anche l’album che scrivemmo insieme con Piero (musiche di Gianni Marchetti) per una giovanissima Nada, Ho scoperto che esisto anch’io ».

Quattordici canzoni del poeta di Livorno recano la doppia firma Ciampi-Pavone. «Un lavoro irripetibile. Con Piero si lavorava per “immagini”. Si partiva da un’idea, una suggestione, un sentimento comune, come quello di padri, io e lui, che nello stesso periodo avevano problemi a vedere i propri figli dopo la separazione... ». Storia d’amore e d’amicizia quella tra Piero e Pino, «ma anche con Marcello Micci che ci ospitava nella sua trattoria di famiglia e Aldo il pugliese. E poi con noi c’era sempre Roberto Ciampi, morto giovane anche lui e della stessa malattia di Piero (tumore all’esofago) ». Una vita piena di allegra melanconia, di affinità elettive che con una chitarra in mano d’incanto diventavano musica e parole. Notti a tirare fino all’alba in cui Ciampi ebbe l’apparizione del Cristo tra i chitarristi. «Piero era un generoso che si spendeva per gli altri. Anche se sconosciuti. Come quella volta che raccattò e offrì una stanza d’albergo a un povero ragazzo di colore che era stato picchiato. Il giorno dopo lasciò il conto intestato a mio padre, che quando saliva da Catanzaro a Roma alloggiava sempre in quell’albergo. Mio padre – sorride Pavone – pagò... con altrettanta generosità, anche lui voleva bene a Piero». Come non amare un poeta che era capace di «struggersi e di piangere a dirotto ascoltando Avec le temps di Leo Ferrè?». Uno dei grandi francesi amati, in virtù anche di quella radice “esistenzialista” che da giovane lo aveva condotto a Parigi. «Piero mi raccontò di aver conosciuto Celine. Era stato un grande lettore di Sartre e Camus, ma più di ogni cosa amava la poesia». Il poeta dell’amor perduto. Quelle prime canzoni di Piero Litalianole presentava come «questi dodici ricordi sono la Bastiglia del mio cuore». Pezzi di vetro, quel cuore esplose nelle 53 Poesie e Frammenti in cui scrisse versi prevertiani: «Amore. Piuttosto che tornare indietro niente. Ma per un giorno dei giorni con te non so, forse tutto». «E il tutto, era l’amore incondizionato dell’amico sempre presente. Quello del genitore a cui nessuno aveva insegnato ad essere il papà di Stefano e Mira.





I due bambini avuti da altrettante donne, cresciuti lontano da Piero che, come canta in Sporca estate, avrebbe tanto voluto portare «a cena sulle stelle... Ma non ci siete. Ma non ci siete. Ma non ci siete». Ciampi ha sbagliato e fallito, come tutti i poeti, ma ha sempre avuto il coraggio e la dignità di chiedere scusa al mondo e all’amico di turno. Ezio Vendrame, l’unico vero “poeta del gol” un giorno uscì dal campo a partita in corso per salire in tribuna e andare a salutare «il mio Piero... – raccontò – Ma una notte litigammo perché combinò un casino, cosa che gli capitava ogni volta che beveva un bicchiere in più. Al mattino dopo lo trovai sveglio, seduto sulla poltrona di casa mia che tremava e mi disse piangendo: “Ezio, perdonami... Io sono un poeta”». «Ezio quando era al Napoli o al Vicenza, ora non ricordo, un anno smise di giocare – continua Pavone –. Sparì dalla circolazione per seguire Ciampi nei suoi concerti e le sue scorribande... Essere amico di Piero era una meravigliosa malattia, contagiosa. Chiunque gli è stato vicino ha avvertito sulla propria pelle i brividi di una “febbre” creativa». La passione febbrile di un anarchico sempre in lotta contro la mediocrità. La sostenibile leggerezza dell’Aquilone Piero, il brano che gli dedicò un altro suo grande amico, Renato Zero. «Oggi, tanti riscoprono e cantano Piero Ciampi, ma c’è stato un tempo in cui, anche per il suo essere sempre fuori dagli schemi, era impossibile stargli dietro e passava per un incompreso ».

Allergico ad ogni compromesso, Ciampi volava via come Il merlo del suo dirimpettaio, Alberto Moravia. Nel 1980 quando morì, a soli 46 anni, se ne andò nell’indifferenza anche di quelli che poco prima avevano “scroccato” un po’ della sua intelligenza e della sua rara compagnia. Piero Ciampi è stato sfruttato, imitato, plagiato. «Qualcuno non ha ancora ammesso le sue colpe. Zucchero ha pubblicamente dichiarato che la sua Il mare impetuoso al tramonto è ispirata alla poesia di Piero Il mare al tramonto ». Ciampi ha ispirato persino il suo medico curante, il dottor Mimmo Locasciulli, diventato anche lui cantautore ha inciso la ciampiana e splendida Tu no. «In quel brano Ciampi canta: “Sono a tua disposizione. Per la vita e per il cuore”... Io continuo a scrivere canzoni, ho pubblicato l’album La vita è disparima Piero mi manca tutti i giorni. Manca la voce delle sue telefonate, anche le più assurde, in cui si metteva a disposizione, ti abbracciava e ti faceva sentire parte di un mondo in cui si era maledettamente più amici».