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Parigi. Christo, il trionfo "impacchettato" parla francese

Maurizio Cecchetti inviato a Parigi sabato 25 settembre 2021

L'Arco di Trionfo a Parigi “impacchettato” da Christo e visibile fino al 3 ottobre

Sulla copertina dello smilzo catalogo che accompagna il “pacco” nel quale Christo e Jeanne-Claude hanno sigillato l’Arc, ovvero l’Arco di Trionfo che domina Parigi al culmine degli Champs-Élysées, si vede uno dei disegni preparatori che mostra, pendente al vertice dell’arco, un drappo coi colori francesi. La bandiera, insomma. Questo dice molte cose sul senso dell’Arc empaqueté, come recita il titolo dell’opera la cui datazione, però, spazia per ben 60 anni, dal 1961 a oggi. Christo e Jeanne-Claude in oltre mezzo secolo hanno realizzato parecchi progetti, costosissimi ma autofinanziati vendendo i disegni preparatori (quello dell’Arco ha richiesto 14 milioni di euro sostenuti dalla fondazione intestata ai due artisti – sperimentata coppia creativa fin dal 1958, lei scomparsa già nel 2009 e lui, invece, l’anno scorso, in maggio, a New York mentre era alacremente all’opera sul progetto per l’Arco, visibile fino al 3 ottobre).

Christo mostra una delle sue tavole di progetto per l'intervento sull'Arco di Trionfo di Parigi - Estate Christo Javecheff

Tra le cose memorabili – a parte il controverso intervento della passerella sul lago d’Iseo nel 2016, poetico certamente ma meno incisivo sul piano per così dire “ideale” – resterà a imperitura memoria un altro impacchettamento, ben più impegnativo dell’Arco, quello del Reichstag di Berlino nel 1995. All’epoca il cancelliere Helmut Kohl stava conducendo la faticosa riunificazione tedesca, voluta con determinazione ma, a sentire il parere di molti tedeschi di oggi, mai pienamente realizzata. La caduta del Muro esercitò un enorme potere simbolico di liberazione, tuttavia pose sul tavolo problemi di “compatibilità” fra due popoli tedeschi che continuavano a portare nella loro psiche le tracce della radicale diversità dei rispettivi modelli politici. Tutti quelli che videro i filmati della televisione ricordano ancora con una certa trepidazione le immagini di una gigantesca opera di silenziamento, di occultamento, di cancellazione del simbolo politico della Germania ma non, se vogliamo, del nazismo, che anzi quel simbolo lo esautorò per dodici anni, dal 1933 – l’anno nel quale il palazzo subì un grave incendio doloso –, al 1945 con la caduta di Hitler.

Fatalmente, quell’edificio ebbe la sventura di diventare simbolo della volontà di potenza tedesca, ma in realtà con la massima affermazione di quella hybris distruttiva divenne anche una sorta di guscio vuoto. Tornò a essere Parlamento soltanto quattro anni dopo l’installazione di Christo, nel 1999, diventando in termini politici il nuovo Bundestag, fino a quel momento insediato a Bonn. Questa identificazione col nazismo è la conseguenza dell’assedio e della vittoria nel 1945 dei russi contro l’esercito tedesco che vi si era trincerato dentro: patì, insomma, l’onta della bandiera che i sovietici vi issarono come emblema della sconfitta nazista. La costruzione del Reichstag era iniziata nel 1871, quando la Germania si era unita; in quello stesso anno si era conclusa anche la guerra franco-prussiana, dove i francesi oltre a subire la perdita dell’Alsazia e della Lorena avevano visto sfilare lungo gli Champs-Élysées le truppe germaniche entrate dalla grande porta dell’Arco di Trionfo. Fu come una sorta di stupro per i francesi, che videro quella sfilata come la violazione dell’orifizio materno.

L'ingresso delle truppe tedesche a Parigi nel 1940: gli Champs-Élysées e sullo sfondo l'Arco di Trionfo - .

Una soglia che aveva voluto Napoleone, reduce dalla vittoria di Austerlitz, il capolavoro militare del Bonaparte, per affermare nel cuore dei francesi l’orgoglio della loro grandezza nell’Europa dell’epoca. Era il 1806. In realtà le vicende successive dell’impero napoleonico fino a Waterloo, dove le truppe prussiane ebbero un ruolo decisivo nell’umiliare l’orgoglio del generale corso, fermarono i lavori dell’Arco, che ripresero soltanto nel 1832, concludendosi sotto Luigi Filippo nel 1836. Questo confronto franco-tedesco continua fino appunto alla sconfitta francese a Sedan e la capitolazione nella guerra. Una delle poche mosche bianche che all’epoca presero posizione contro il clima guerrafondaio delle classi dirigenti francesi fu il grande scrittore e critico Remy de Gourmont, che scrisse un pamphlet fra il corrosivo e l’ironico a cominciare dal titolo, JouJou patriotisme, dove sosteneva che la Francia non solo non era attrezzata per resistere alla potenza prussiana, ma ricordava che alla radice francesi e tedeschi erano “fratelli” usciti dall’unico ceppo franco e accomunati dalla grandezza delle loro culture. Per questo venne licenziato dalla Biblioteca Nazionale dove lavorava da dieci anni con grande beneficio per l’umanità. Ma ebbe ragione, e a quella sconfitta si aggiunse l’ulteriore disastro della guerra civile con la Comune che incendiò Parigi e la ridusse in molte sue parti alle macerie, sacrificando altri francesi.

In effetti, l’Arco di Trionfo impacchettato, che due giorni fa a Parigi scintillava sotto i raggi del sole di una splendida giornata d’inizio autunno, con la gente formicolante sia sotto il “pacco” sia ai margini di piazza De Gaulle, mi ha fatto ripensare a quale importanza abbia quel monumento nella storia moderna della Francia. E mi sono chiesto se, per caso, quel “pacco” – si dice appunto “tirare un pacco” quando si pensa a una fregatura o a un tiro mancino contro qualcuno – non sia stato causa, al di là dei vantaggi di marketing di una operazione spettacolare, di un qualche imbarazzo per Macron. Non tanto perché è stata occultata la porta di Parigi, simbolo maestoso, nei suoi cinquanta metri di altezza, della grandeur gallica – peraltro violata per ben due volte dai tedeschi, anche nel 1940, col loro esercito, ma preservata nella Grande Guerra dove i francesi ebbero la loro rivincita (ma con lo Stato Maggiore che manipolò molta della verità sulle vite sacrificate) –; bisogna piuttosto ricordare, come si evince dal catalogo stampato per l’occasione ( L’Arc de Trionphe,Wrapped, Taschen) – che Christo pensava di impacchettare quel monumento già all’inizio degli anni Sessanta. Al culmine, cioè, della Guerra d’Algeria. Una delle vicende più spinose della politica francese nel dopoguerra, conclusasi con l’indipendenza algerina e un’infinità di morti (nel 1957, l’allora guardasigilli François Mitterrand, futuro presidente per due mandati, rifiutò la grazia a decine di condannati a morte del Fln algerino, e la cosa gli pesò non poco sulla fedina politica quando si candidò alla presidenza, tanto che in campagna elettorale fece promesse sull’abolizione della pena di morte).

L'Arco di Trionfo e il catafalco del Milite Ignoto nel 1920 - .

Coprire l’Arco di Trionfo è mettere a tacere un simbolo dell’identità di un popolo orgoglioso di sé. E quando un segno viene meno, si vede meglio che cosa effettivamente copriva con la sua apparenza. Sotto quel-l’Arco sono passati nel 1885 il catafalco per il funerale di Victor Hugo, il quale nel 1867, per l’Esposizione universale, aveva firmato un saggio dove vedeva Parigi come capitale della cultura europea e della pace fra i popoli (profezia subito smentita dalla guerra franco-prussiana); e poi, a Grande Guerra conclusa con la vittoria, nel 1920 anche il catafalco del Milite ignoto – il Soldat inconnu – : il monumento divenne infatti la sua tomba, dove dal 1923 è accesa la fiaccola, il fuoco eterno del sacrificio per la patria (una legge nel 1915 istituì la menzione per tutti i caduti di «mort pour la France»). La scelta, all’epoca, fu molto discussa: già nel 1916 si voleva depositare la memoria di «un des combattants ignorés mort bravement» nel Pantheon, assieme a un libro con tutti i nomi dei caduti; poi, dopo annosi dibattiti, nel 1920, celebrando il cinquantenario della Terza Repubblica, decisero di trasferire il cuore di Léon Gambetta – padre della Repubblica, e simbolo dell’onore dei francesi sconfitti a Sedan – al Pantheon, così dedicando l’Arco alla tomba del Milite ignoto.

Questa grandeur e le sue retoriche militari muovono però dall’istinto imperiale che i francesi, ogni men che non si dica, riscoprono puntualmente. Come testimonia la geopolitica che la Francia, da Sarkozy fino a Macron (cioè da una quindicina d’anni almeno), ha affidato a un misto di politica culturale – il cui simbolo è senz’altro la cessione del marchio Louvre (e di molte opere in deposito) al Museo omonimo di Abu Dhabi, ma anche l’appello di Sarkozy in quell’occasione a sviluppare iniziative analoghe, chessò a Singapore, parlava chiaro –; e di politica militare: gli interventi in Medio Oriente, nell’Africa del Nord e in altre luoghi limitrofi mostrano che siamo davanti a una nuova, neanche tanto dissimulata, politica “neocoloniale”. Ed ecco, allora, che il “pacco” di Christo non ha perduto, oltre mezzo secolo dopo, quella tempestività che poteva avere all’epoca come enorme macchina (proporzionale alla grandeur che doveva smascherare), ruvida e porosa pur nella sua scintillante gaiezza solare, capace di mettere a nudo le ombre della Francia di ieri e di oggi.