Agorà

INTERVISTA. Cerami: «L'arte rivela l'Invisibile»

Alessandro Zaccuri giovedì 16 febbraio 2012
​Vincenzo Cerami sta lavorando a un nuovo romanzo, a una raccolta di versi e all’intervento con cui sabato parteciperà alla presentazione del catalogo Lo splendore della verità, la bellezza della carità (a cura di Micol Forti e Pasquale Iacobone, Libreria Editrice Vaticana, pagine 160, euro 35,00), che raccoglie le opere offerte nel luglio scorso a Benedetto XVI in occasione del suo sessantesimo anniversario sacerdotale. Un appuntamento voluto dal cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura, come prosecuzione dell’incontro fra il Papa e gli artisti svoltosi nella Cappella Sistina il 21 novembre 2009. «Anche in quel caso ho avuto l’onore di essere presente – ricorda Cerami – e anche allora ero in ottima compagnia. Questa volta, poi, sono addirittura invitato a prendere la parola...».Abituato a muoversi sulla linea di confine tra forme espressive differenti, in particolare cinema e letteratura (porta la sua firma, tra l’altro, la sceneggiatura del capolavoro di Roberto Benigni, La vita è bella), Cerami è l’interlocutore ideale per fare il punto sul rapporto fra arte e fede: «Il mio maestro Pasolini mi ha trasmesso un amore incondizionato per la realtà – rivendica –, uno sguardo verso l’essere umano che, per me, rappresenta la prima forma di religiosità».Sì, ma quanti artisti di oggi la pensano allo stesso modo?«Non è questione di come la si pensa. Non mi è mai capitato di incontrare un artista che, pur affrontando la quotidianità anche nelle sue pieghe più inquietanti, non andasse in cerca di qualcosa di ineffabile e di invisibile. È un’esplorazione che attraverso spesso zone oscure, ma che proprio per questo non può non entrare in contatto con il cammino della Chiesa. Dove la fede aiuta ad approfondire il rapporto tra l’uomo e la trascendenza, l’arte cerca di svelare l’uomo a se stesso, magari ripetendogli qualche piccola verità universale».Per esempio?«Che perfino un re nasce nudo e che l’unica vera possibilità di salvezza sta qui, in questa povertà originaria. Mi verrebbe da dire che santi non si diventa, ma si nasce. La fatica sta nel non lasciarsi soffocare dai paludamenti con cui la cultura tende a coprirci. In questo senso, il gesto di Francesco davanti al popolo di Assisi non ha davvero nulla di scandaloso: il Poverello si spoglia per tornare a essere quello che era all’inizio, una creatura nuda e indifesa che confida esclusivamente in Dio».Detto così, sembra semplice.«Non lo è, purtroppo. Anche nell’arte, infatti, per arrivare alla bellezza occorre attraversare l’inferno del dubbio, delle false credenze, ma senza mai accontentarsi di descrivere il male con compiacenza, come invece si tende a fare in questi anni. Guai se ci si arrende alla bruttezza che sembra dominare le nostre esistenze. Il vero artista ha l’occhio lungo, intuisce la bellezza anche quando è soltanto una promessa, un’ombra incerta».È di questo che parlerà sabato?«Parlerò pochissimo, in effetti. Più che altro cucirò fra di loro citazioni dal Qoelet e dalle poesie di Giorgio Caproni, soffermandomi poi su un passo di straordinaria intensità in cui Benedetto XVI richiama l’urgenza di radicare nel quotidiano ogni ricerca dell’Assoluto, ogni interrogazione sulla verità. La quale, mi permetto di aggiungere, non si rivela quasi mai all’artista. Noi siamo più che altro esploratori, ci attardiamo su tracce spesso indecifrabili. Ma sappiamo che in quelle stesse tracce dimora una memoria della verità. Vede, un artista è sempre costretto tra lo jus, che è la legge degli uomini, e il fas, che è la legge di Dio. Personalmente, me ne rendo conto ogni volta che contemplo le opere del Beato Angelico, con quella luce inimitabile che riesce a dissolvere ogni ombra dalla scena. Ma anche lui, pur essendo un pittore così vicino a Dio, aveva le mani impastate di colore. Era un uomo come noi. Una creatura, come tutti».L’arte contemporanea è ancora capace di tanto?«Sì, a patto che non rinneghi il suo rapporto con l’inquietudine, con il mistero che proviene dall’uomo ed è, nel contempo, più che umano. Nel Novecento, per esempio, la musica jazz ha avuto questa capacità di evocazione, questa dimensione totale di libertà e di meraviglia».Lei si considera un autore religioso?«Sì, se ci riferiamo al sentimento che ho cercato di evocare. Perfino il protagonista di Un borghese piccolo piccolo era, a suo modo, un santo mancato. Nel mio prossimo romanzo, poi, il personaggio principale è una donna che avverte su di sé la presenza di qualcosa che non sa spiegare, una presenza decisiva e occulta. Come una verità che non si riesce a interpretare, appunto».