Agorà

INEDITI. Caulonia, la «comune» scaricata dal Pci

Roberto Beretta venerdì 27 febbraio 2009
La storia scritta dai figli non è mai la migliore premessa per una ricostruzione obiettiva delle opere dei padri, o almeno per allontanare nel lettore i sospetti di parzialità. Ciò non significa tutta­via che il volume Operazione «Armi ai partigiani» , appena stampato dalla calabrese Rubbettino (pp. 190, euro 14), non abbia i suoi me­riti. Per esempio nella divulgazione di documenti inediti e informazio­ni interessanti sulla cosiddetta «Repubblica di Caulonia»: l’ano­malo e brevissimo (durò solo 5 giorni) esperimento di «repubblica partigiana» che nel marzo 1945 in­teressò la cittadina in provincia di Reggio Calabria. L’autore? Alessan­dro Cavallaro, appunto il più giova­ne figlio di Pasquale, protagonista incontrastato di un episodio che fece gridare – da una parte – al so­cialismo finalmente realizzato in I­talia e – dall’altra – al bolscevismo sbarcato sulla punta dello Stivale. Le novità su cui Cavallaro junior punta per una rivoluzionaria ri­comprensione storica di quella mi­nuscola e originale «comune» sorta nel Mezzogiorno sono già espresse in copertina: le «armi ai partigia­ni », appunto, e «i segreti del Pci». Due elementi che, equamente di­stribuendo tra destra e sinistra col­pe e ipocrisie, farebbero stagliare la figura del Cavallaro padre come quella di un solitario e disinteres­sato eroe (o forse vittima) schiac­ciato tra i contrapposti giganteschi schieramenti. Pasquale, in realtà, è un personaggio arduo da decifrare al di fuori di alcune categorie del­l’atavico ribellismo meridionale: disertore nella Grande Guerra ma per questioni d’orgoglio, uomo d’azione inesausta e nello stesso tempo maestro dalla scrittura am­pollosa, antifascista anche perché oppositore del sistema feudale dei latifondisti, comunista ma alleato degli Alleati... Nel luglio 1942 Ca­vallaro – leader del locale movi­mento clandestino di opposizione al regime – venne infatti contattato dai servizi segreti Usa per occupar­si dello sbarco notturno e del tra­sporto di armi destinate ai parti­giani del Nord. Fu probabilmente per tale attività che l’uomo, dopo l’arrivo dei liberatori in Calabria nel settembre 1943, ricevette il be- nestare alleato a diventare sindaco di Caulonia, nonostante fosse co­munista. Ma intanto parecchi di quei mitra erano rimasti al Sud e il 5 marzo 1944 spuntarono al collo delle improvvisate milizie della nuova «Repubblica». La quale – a dar retta alla ricostruzione di Ales­sandro Cavallaro – sarebbe stata un’iniziativa spontanea, non volu­ta dal padre, e tuttavia diede spun­to ad attività che a qualche supe­riore direttiva dovevano pur obbe­dire: dal giacobino «tribunale del popolo», riunito in pianta stabile a giudicare i fascisti (e i possidenti) locali, al sequestro dei carabinieri nella locale stazione, all’uccisione del parroco – a detta dell’autore accidentale e dovuta a rancori per­sonali. Almeno in questa parte, in­somma, la descrizione risulta piut­tosto «innocentista» nei confronti del suo principale attore. Il merito dello storico va però cercato altro­ve, e cioè nella segnalazione di un secondo aspetto finora sottaciuto: i rapporti tra Cavallaro e il Pci, o meglio la solitudine in cui le strut­ture e i dirigenti comunisti lascia­rono il militante in quei momenti di difficili scelte, «scaricandolo» poi anche all’epoca del processo celebrato contro di lui nel 1947. Il leader calabrese vi fu condannato a 8 anni, al termine dei quali – tra risarcimenti in denaro (poco) e ri­chiami all’ideale – Umberto Terra­cini riuscì a convincerlo a tenere la bocca cucita sui trascorsi piani se­greti del partito: «Se i compagni – gli scrisse infatti il politico comuni­sta in una lettera del 1953, inedita e pubblicata ora nel volume – si so­no armati sottraendo parte delle armi che dovevano arrivare ai par­tigiani, all’epoca è stato giusto. Non si poteva sapere come sareb­bero andate a finire le cose». La ri­volta di Caulonia dunque, secondo il figlio, sarebbe stata opera di «quel movimento armato che Ca­vallaro aveva organizzato per ordi­ne del partito comunista», il quale però (dopo essersene assunto per breve tempo la responsabilità at­traverso i suoi dirigenti provinciali) giustificò la repressione e abban­donò il sindaco «a se stesso, per­mettendo persino che gli si gettas­se addosso l’accusa di mandante dell’assassinio del parroco»; infatti «il partito si era piegato alla 'ne­cessità' di sacrificare Cavallaro e tutto il movimento per dimostrare ai partiti borghesi che il Pci era affi­dabile... ed era pronto a sedersi con loro attorno a un tavolo per ri­solvere pacificamente i problemi del Paese». Insomma, «Cavallaro e­ra diventato scomodo... sapeva molte cose», tra cui le responsabi­lità del partito negli omicidi di al­cuni fascisti e agrari, e perciò «qualcuno aveva bisogno che Pa­squale sparisse dalla circolazione per un bel po’ di tempo. I comuni­sti o gli americani? O, forse, tutti e due insieme? Entrambi avevano molto da nascondere». Una cassa di documenti sequestrata; le fre­quenti visite che i pezzi grossi del partito (da Secchia a Pajetta) face­vano periodicamente all’ex com­pagno, morto nel 1973; un docu­mentario Rai girato nel 1990 sulla «repubblica di Caulonia» e mai an­dato in onda... Sembrano altrettan­ti indizi rafforzativi dell’esistenza di un possibile segreto che comun­que, «per tener fede alla grande fe­de » (come aveva scritto una volta a Togliatti), Cavallaro non tradì mai.