Agorà

Anteprima. Cattolici d’Italia, partigiani di carne e di spirito

Angelo Paoluzi sabato 18 ottobre 2014
​Non tanto la «partecipazione alla Resistenza» dei cattolici quanto il «modo cattolico» di quella partecipazione. Lo storico Alberto Canavero avanza una distinzione che, a settant’anni dalla rivolta degli italiani contro l’occupazione nazista, fra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, giustifica l’adesione dei credenti alla lotta per la libertà nelle varie maniere nelle quali si espresse. Il «modo cattolico» comincia da poco a essere debitamente esplorato per colmare le incertezze relative a quel troppo spesso sottovalutato retroterra – fatto di disponibilità individuali, di ragioni culturali e spirituali, di gruppi di sostegno, di intuizioni diffuse in interi strati sociali – e ad alcune responsabilità nella «comunione della dimenticanza» denunciata, per l’insieme della Resistenza, da un altro storico, Sergio Luzzatto.Possiamo ricordare per tutti Giorgio Bocca (al quale non si possono certamente attribuire indulgenze per la Chiesa e per coloro che credono in essa) il quale ammette: «Senza l’aiuto del clero tre quarti della pianura padana sarebbero rimasti chiusi e difficilmente accessibili alla ribellione». Si può quindi dedurre (quello di Bocca è un riconoscimento condiviso anche da altri) la sostanza della solidarietà offerta dalla gente ai «soldati dell’ombra», anche da parte di quella società rurale ritenuta più tradizionalmente religiosa, socialmente conservatrice e non particolarmente attenta a diritti e valori di libertà. Senza di essa la lotta clandestina, appunto, non sarebbe stata possibile. L’associazionismo cattolico, la sua cultura (pensiamo al ruolo dell’Università Cattolica di Milano), le canoniche, il mondo contadino si sono dimostrati, a diversi livelli di consapevolezza, altrettanti indispensabili supporti per i combattenti alla macchia.In un duplice segno positivo: da una parte la ferma convinzione che fosse necessario condurre un’azione per la riconquista al tempo stesso delle libertà civili e dell’indipendenza nazionale, e dall’altra in proiezione di una speranza per un domani migliore, nel quale tutti potessero godere di una ritrovata pace e di un auspicato benessere. Senza dimenticare, come sottolineava un noto comandante partigiano, Ermanno Gorrieri, che la presenza dei "bianchi" – il cui ruolo fu tutt’altro che secondario nella lotta sull’Appennino – era servita a controllare e smussare tensioni alimentate specialmente presso il mondo rurale da atteggiamenti intemperanti dei "rossi". Perché, a suo parere, i comunisti «hanno vissuto la Resistenza come guerra di classe... e pensano che l’obiettivo del partito non possa essere diverso dalla conquista armata del potere». Cosa che spiega non rari episodi criminali di cui schegge impazzite della lotta clandestina si sono rese responsabili, non soltanto a guerra finita.È in corso quindi da qualche tempo una revisione, storiograficamente plausibile (rimandiamo, per tutti, al paziente lavoro di Sandro Spreafico e alla serie di eccellenti ricerche di Giorgio Vecchio, l’uno e le altre punti fermi per l’avvio di un discorso non settario sull’argomento), di certi criteri di attribuzioni partecipative: al preteso monopolio, o quanto meno a una schiacciante preponderanza, delle sinistre va tolta qualche percentuale, da aggiungersi alle altrui presenze, per constatare che, al 25 aprile 1945, si potevano registrare, per le formazioni di ispirazione cristiana, 65-80mila combattenti, divisi in 81 brigate, sugli effettivi 180-200mila partigiani in armi, peraltro non tutti comunisti.Ricordiamo, per fare soltanto alcuni esempi, il democristiano Benigno Zaccagnini, vicecomandante in Romagna di una Brigata Garibaldi nella quale militava un altro cattolico, Pietro Pironi; il martire Gino Pistoni, dell’Ac, fra i garibaldini della Val d’Aosta; Andrea Cantarelli, comandante della 4^ Brigata Garibaldi in Umbria; Luigi Pierobon, poi fucilato dai fascisti, alla testa della Brigata Stella aggregata alla Garibaldi; Aldo Gastaldi capo della banda Cichero nelle formazioni garibaldine in Liguria; Giovanni Vignali «Bellini», ex capo scout, vicecomandante regionale del Cvl Nord Emilia. Mentre i militari e gli indipendenti di Enrico Martini «Mauri», strutturati nelle Penne nere, non avevano una connotazione confessionale anche se non mancò fra loro la presenza di cappellani.
A conforto delle nostre asserzioni ricordiamo, sempre a titolo di esempio, che nel Parmense 11 delle 22 brigate operative si dichiaravano democratico-cristiane mentre Gastone Franchetti, l’organizzatore delle Fiamme Verdi bresciane che sarà fucilato dai fascisti nell’agosto 1944, aveva raccolto 2.800 uomini, il doppio, se non il triplo, delle formazioni garibaldine. E c’era tutto un retroterra di chi, pur non volendo imbracciare le armi, forniva il cibo, l’assistenza materiale e sanitaria, i collegamenti, il supporto informativo. Un’attività sottotraccia, nonviolenta, espressione oltretutto di un’Italia degli indifesi, che esasperava il nemico, inducendolo a inumane rappresaglie contro vecchi, donne e bambini e che non tollera il nome di "guerra civile", come in seguito si è voluto impropriamente catalogarla: era una rivolta contro l’invasore, al cui servizio si erano posti i fascisti della Repubblica sociale italiana. Una Resistenza, la definisce lo storico Agostino Giovagnoli, come forza di lungo periodo, e alla quale concorse gran parte della comunità nazionale.Non poteva esserci per i cattolici, a uno sguardo retrospettivo, scelta diversa nei confronti del nazifascismo, con il suo disprezzo per la dignità umana. E se l’hitlerismo aveva da tempo giocato le sue carte contro i valori dello spirito, e quindi contro i più intimi convincimenti dei cristiani, il larvale fascismo rimesso in sella dall’occupante perdeva ogni alibi (si ricordino le volgari filippiche di Roberto Farinacci e altri gerarchi contro vescovi e preti) e non poteva neppure più vantare benemerenze "nazionali" e cristiane. La libertà come dato morale, le implicazioni etiche «delle libertà» furono contributo e riscoperta a un tempo, da parte dei cattolici, di quei fattori sui quali si fondano il dialogo, la partecipazione, l’essere veramente comunità, società con gli altri, in poche parole democrazia. Possiamo citare la suggestiva definizione di Henry Michel, secondo il quale per i cattolici «la Resistenza più che una politica è una mistica».Non era un fenomeno, dunque, che nasceva a caso. Poté fare in tempo a riconoscerlo persino Eugenio Curiel, un dirigente comunista ucciso dai nazifascisti: «L’interesse delle masse cattoliche – scriveva – e della Chiesa alla democrazia e alla libertà è una realtà che vent’anni di oppressione fascista hanno reso inoppugnabile: la distruzione delle fiorenti istituzioni sociali promosse dai cattolici nelle città e soprattutto nelle campagne, la continua coazione che finì per ridurre entro limiti intollerabili la vita delle organizzazioni cattoliche e specialmente di quelle giovanili..., infine il lento avvilimento di ogni dignità individuale sono il prezzo che le masse dei lavoratori cattolici e la Chiesa hanno pagato all’uomo del Concordato». Ma l’avversione alla dittatura non consistette soltanto in una reazione a diritti sociali e personali conculcati; apparteneva, invece, a un patrimonio ideale che la tirannia, in Italia e in Germania, non poté del tutto soffocare e che altrove l’invasione e l’oppressione non furono capaci di eliminare.
La Resistenza, ripetiamo, non sarebbe stata possibile senza un saldo patrimonio morale anche di natura religiosa: la Rsi non ebbe alcun riconoscimento ufficiale e istituzionale da parte del Vaticano; Pietro Palazzini, poi cardinale, dichiarerà: «La resistenza passiva... a un governo illegittimo quale era la Repubblica di Salò, tenuto in pugno da un esercito usurpatore, eticamente era legittima». I fascisti abbandonarono infatti le referenze alle radici cristiane – strumentalizzandone alcune soltanto a fini di propaganda –, come apparve chiaro da comportamenti specifici quali le deportazioni di ebrei e non ebrei, i processi senza garanzie giuridiche, le camere di tortura, le condanne a morte, le rappresaglie contro i civili, le stragi di massa, l’esecuzione sommaria di sacerdoti (i repubblichini ne uccisero più dei tedeschi), la durezza degli attacchi alla Chiesa e ai suoi rappresentanti sulla stampa controllata da Salò. L’impianto della clandestinità ha potuto svilupparsi perché nelle città, nelle campagne, nelle parrocchie, negli oratori, nella società civile, all’interno di ogni ceto si alimentava la ribellione morale all’oppressore. Si intuiva che il «nuovo ordine» imposto dalle armi naziste poteva identificarsi con una sorta di «male assoluto».