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ANNIVERSARI. Cash, la rockstar che amava san Paolo

Andrea Pedrinelli venerdì 6 settembre 2013
«Il fondamento della musica americana». «Un modello di integrità e arte». «Da Dylan a Springsteen tutti l’hanno avuto come riferimento». «La voce dell’America». I media americani non risparmiarono parole, il 12 settembre 2003 quando a Nashville, nella notte, si spense Johnny Cash. E chi di Cash ne sapeva poco, sicuramente restò colpito: tante fanfare per un ultrasettantenne che aveva dato il meglio di sé ai tempi del primo rock? E perché il termine "integrità" per uno che aveva conosciuto carcere e droga? Eppure non era fuori luogo, tanta celebrazione. Perché Johnny Cash, che fin da subito aveva definito la propria voce «un dono del Signore», quel dono l’aveva sfruttato: oltre la qualità della sua amplissima discografia, e pur negli alti e bassi del suo essere uomo. Cash aveva scelto la musica come lavoro, e quel suo mestiere sotto i riflettori l’aveva vissuto con idee precise. Quelle del "Man in black", l’uomo in nero come si era definito e cantato. «Adorerei mettere vestiti sgargianti / Mi vesto di nero per i poveri e gli sconfitti / Per quelli che non hanno letto né ascoltato le parole di Gesù». Johnny Cash era nato in Arkansas nel 1932 ed era cresciuto da cristiano credente grazie soprattutto alla madre. Con cui lavorava nei campi di cotone cantando spiritual, assieme alla quale aveva vissuto l’impotenza umana davanti agli eventi naturali, che vide reagire con la fede anche alla morte dell’altro figlio Jack, adolescente, in un incidente sul lavoro. Da bambino Cash aveva poi avuto anche un altro esempio di vita: l’amichetto Pete, colpito dalla poliomelite, che gli insegnò a suonare la chitarra dicendogli «Quando si perde un dono, la vita ti regala qualcos’altro». Fu così che Cash scelse la strada della musica, proponendosi con idee chiarissime come cantante gospel all’etichetta di Elvis, la Sun. Ma la Sun gli impose di fare rock. E anche dopo le 43 settimane in hit parade di I walk the line nel ’56, continuò a impedirgli di incidere gospel. Allora Cash passò alla Columbia, per pubblicare nel 1959 l’Lp Hymns by Johnny Cash, primo di una serie di titoli a tema religioso della sua discografia. Il successo rimase, ma con esso giunsero le tentazioni, droga e alcol su tutte: un «allontanarsi da me stesso e da Dio» che portò l’artista a tentare il suicidio nel ’67. E proprio allora ci fu la svolta. «Capii che Dio aveva piani diversi su di me, e da allora ho vissuto e lavorato in modo differente». Ovviamente non diventò un santo, Johnny Cash (che ricadde nella dipendenza più volte, per lo più da antidolorifici), e però mantenne la promessa. Tanto che quando nel ’69 il network ABC gli affidò un programma tv in prima serata, Cash vi fece pubblica professione di fede, contro i «suggerimenti» dei dirigenti tv. Così che l’ABC gli chiuse lo show appena possibile e Cash stesso confermò che la faccenda non gli era costata poco. «Dissi quello che sentivo, ma i risultati furono un calo delle vendite e accuse di strumentalizzare Dio. Però sarei stato un pazzo, a preferire vent’anni di successo al mio credo». E così andò avanti a suo modo. Portò le sue canzoni sui carcerati, intrise di pietas, nelle prigioni vere; andò a cantare per i militari in Vietnam («E di giorno facevamo visita ai feriti»); incise un Lp per bambini. E ovviamente cantò la fede. Nel 1990 incise persino il Nuovo Testamento in audiocassetta, ma già nei primi anni ’70, autofinanziandosi, aveva girato in Terra Santa un film su Cristo (Gospel road), e nell’86 aveva pubblicato la propria lettura della vita di San Paolo in un romanzo significativamente intitolato Man in white. L’uomo in bianco, sì, perché Cash viveva Paolo come il "suo" esempio. Il Cash che entrò negli anni Novanta restava però un artista in calando, finché il produttore Rick Rubin gli propose delle registrazioni (American Recordings) in cui qualità facesse rima con rigore. E Cash poté dunque essere coerente sino in fondo con la sua promessa, tornando anche nelle hit parade. Pur se sofferente dal ’97 della Sindrome di Shy-Drager (malattia degenerativa simile al Parkinson), Johnny Cash cantò valori e fede fino all’ultimo. Anche in sedia a rotelle, anche dopo la scomparsa dell’amata moglie. E incise persino Personal Jesus dei Depeche Mode: a ribadire che per lui «Dio è un consigliere, la roccia su cui fare affidamento». Era il 21 agosto 2003, quando J. R. Cash incise l’ultima canzone. Il 25 fu colpito da una pancreatite cui subentrarono complicazioni respiratorie, e il 12 settembre spirò. Diventando «icona» ed «esempio» anche se forse era stato solo un uomo che, mentre come tutti combatteva le proprie oscurità, aveva provato anche a cantarle. Cantando pure, nei nastri incisi da malato e pubblicati postumi, «Un tempo mi aspettavo fortuna e fama, poi persi fino all’ultimo / Ma quando verrà il momento, lascerò questo mondo con la coscienza a posto». Un testo che oggi, dieci anni dopo, pare la perfetta sintesi di una storia, e di un’arte, da ricordare. A prescindere dai necrologi del 2003, ben al di là della Hall of Fame del rock.