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Mostra a Parigi. Cartier-Bresson, l'arte della foto

Maurizio Cecchetti lunedì 24 febbraio 2014
È un omaggio che non è un omaggio. Nel senso che evita i rischi dell’imbalsamazione che sempre si presentano quando si rilegge l’opera di un mostro sacro nell’occasione di un anniversario. Henri Cartier-Bresson “qui e ora”, ovvero nella storia. È questa la pregiudiziale con cui Parigi reinterpreta l’opera del fotografo a dieci anni dalla morte. Lo afferma, testuale, Clément Chéroux, il curatore della grande retrospettiva aperta da qualche giorno e fino al 9 giugno al Centre Georges Pompidou, spiegando i criteri che l’hanno guidato nella scelta di un’ingente documentazione (circa 500 foto, disegni, dipinti, documenti). In mostra ci sono tutte le opere che hanno reso HCB il mito che è ancora oggi, ma ci sono anche molte immagini poco viste e soprattutto una diversa considerazione delle fasi espressive del fotografo. HCB è probabilmente il più grande fotografo che l’arte fotografica – arte giovanissima, se paragonata alle altre che per tradizione multimillenaria definiamo “visive” – abbia finora avuto. È un primato che non deve rendere tanto tranquillo il suo sonno eterno. Si hanno delle responsabilità, si diventa un peso ingombrante, si rischia, come tutti i padri, il parricidio. La forza del suo stile si sente ogni volta che un’immagine raggiunge l’apice espressivo e segna un punto sulla scala dei valori visivi, rubando a chi verrà dopo il gusto della novità. Una foto celebre come Srinagar. Cachemire (India, 1948), con le quattro donne che sembrano elevare una preghiera al creato, ha già in sé tutto Salgado.Non parole, slogan, motti, ma una foto per dire tutto ciò che è ed è stata la fotografia di Cartier-Bresson: sguardo in profondità, sguardo dal buco della serratura, come Degas definiva il modo con cui osservava la realtà. La foto è quella celebre, intitolata Bruxelles, Belgique 1932, che mostra due ficcanaso che cercano di gettare un occhio al di là di una tenda posta a recinzione di uno spazio aperto. Curiosare è l’essenza stessa della nostra vita; chi non è curioso è, fatalmente, apatico, lontano da ciò che accade attorno e lontano da lui; e Cartier-Bresson è il primo che “getta l’occhio” sulla realtà, è lui il più grande dei ficcanaso, e lo fa con quella nonchalance, ma anche con quell’astuzia che muove ogni vero esploratore o cacciatore. Questo è il genio di Cartier-Bresson: saper entrare dentro le cose come un bisturi, è ciò che Bergson definisce intuizione, entrare dentro ciò che ci appare. Il modo di essere di Cartier-Bresson quando fotografa è il suo vero segreto d’artista. In realtà, HCB non è interessato agli eventi altisonanti. Osserva con maggior piacere la normalità, la quotidianità. Lo si vede nelle poche foto dedicate al maggio francese.Basta guardare la foto di Léon Herschtritt nella quale Cartier-Bresson è ripreso in mezzo agli altri fotografi che stanno immortalando i fatti della contestazione: Cartier-Bresson è diverso da tutti i suoi colleghi, la piccola Leica nelle mani contrasta coi borsoni e i vistosi teleobiettivi degli altri reporter, anche la “divisa” è diversa, lui è un uomo d’altri tempi, quasi un dandy si direbbe, per quanto l’abito che fa il monaco non sia, addosso a lui, niente di demodé o di affettato. Lui è lì, in piazza, quasi come testimone o dilettante della fotografia, non come professionista che cerca di fissare la cronaca in una foto éclatant. Però la foto che scatta della manifestazione in boulevard Saint-Michel in quei giorni, è il suo giudizio di uomo che ne ha viste anche troppe nella vita: Messico, Cina, Spagna, Italia, Germania, Russia e sempre di fronte a situazioni che non lasciano indifferenti. Povertà a New York come in Francia o in Inghilterra; miseria morale, dolore, umiliazione (l’impressionante sequenza della donna kapò nel lager di Dessau nel 1945 resta una testimonianza di rigore tecnico e di presa di posizione).Dopo il mondo céliniano che si rivela sotto i suoi occhi negli anni Trenta e Quaranta, registra il mondo dell’ottimismo e della fiducia incondizionata verso l’umanità, delle meravigliose sorti e progressive che la tecnologia promette dopo il disastro bellico e la ricostruzione: il Centro spaziale Kennedy in Florida nel 1967, i grandi magazzini Lafayette con le loro seduzioni delle merci alla portata per tutti, il salone dell’automobile, la sfilata di moda. Ogni immagine mostra in filigrana il riso ironico e pietoso dell’artefice. Non però una forma di altera “impoliticità”: una delle cose che questa mostra vuole mettere in luce è proprio la collaborazione di HCB coi giornali antifascisti e comunisti, e quindi l’impegno politico negli anni cruciali della guerra; ma proprio per questo, vent’anni dopo il conflitto, e avendo nella memoria le derive totalitarie dello stalinismo e i fallimenti del socialismo, la bagarre del maggio parigino in boulevard Saint-Michel si distilla malinconicamente nel riflesso su un vetro di due manifestanti, due silhouettes niente di più, che stanno correndo in direzione opposta l’una all’altra. Un riflesso eloquente.In realtà, senza voler portare Cartier-Bresson in una sfera metafisica, fuori dal tempo e dalla storia, è vero che il disegno e la pittura che praticò da giovane sono stati l'imprinting  che ha plasmato la sua mente come cacciatore di forme, di situazioni spesso surreali per quanto totalmente incarnate nella realtà: basta ricordare la foto dell’uomo che salta sulla pozzanghera, la sua figura riflessa sulla superficie dell’acqua è nient’altro che un’ombra sfocata. HCB sembra ereditare lo sguardo di Degas, lo segue su quella strada che porta a vedere la realtà come qualcosa che è sempre in atto anche quando si fissa in una immagine, è una visione classica dove la fotografia incarna la stasis che occulta il conflitto di forze della vita.La mostra si chiude con una serie di autoritratti a matita che Cartier-Bresson realizzò negli anni Ottanta. Da molto tempo, ormai, aveva chiuso nel cassetto la sua meravigliosa Leica ed era tornato al disegno e alla pittura. È una conclusione forse troppo repentina, avara di prove, concentrata su quel groviglio di segni che tesse un bozzolo a cui sembra sfuggire la sostanza. Ed è come se sentissimo nella stanza l’eco della domanda: «Chi sono io?».