Agorà

Testimoni. Il testimone: alla carica Savoia, la mia battaglia di Isbuscenskij

Marco Dalla Torre martedì 23 agosto 2016
 Giancarlo Cioffi, milanese, 95 anni, è uno degli ultimi cavalieri del “Savoia” che parteciparono alla battaglia di Isbuscenskij, in cui ebbe luogo l’ultima, famosissima, carica di cavalleria della storia moderna. Arruolato nel “Savoia Cavalleria” nel gennaio 1941, venne inquadrato nel 4° Squadrone, comandato dal capitano Silvano Abba, medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Berlino. Dopo solo un mese e mezzo di addestramento, partì per la Jugoslavia. Poi il “Savoia” venne destinato al Corpo di Spedizione Italiano in Russia. Il suo primo inverno di guerra trascorse relativamente tranquillo. Quando avete ripreso ad avanzare? «Ai primi di giugno del 1942 ci muovemmo da Avdeiewka, a tappe forzate, per raggiungere la grande ansa del Don, dove la Divisione “Sforzesca” era stata investita da una forte pressione russa. Il fronte era davvero ampio e lo schieramento troppo rado, con pochi capisaldi. Si trattava di tenere i russi fermi al di là del Don mentre veniva preparata una nuova linea di difesa». Arriviamo ai giorni della famosa battaglia. «Il 20 agosto arriva l’allarme. Ci mettiamo in movimento. L’offensiva nemica è ormai consistente e continua. Della Cavalleria si sfrutta la mobilità, così riusciamo in qualche maniera a simulare una continua e consistente resistenza, un presidio che, in effetti, non esiste. C’è “puzza di bruciato”, tutti ne siamo consapevoli. Il Reggimento si muove freneticamente tra Tschebotoreskij e Jagodnij, incrociando orde di sbandati italiani e rumeni che lasciano precipitosamente il fronte. Il pomeriggio del 23 agosto arriva l’ordine di spostarsi nella zona di Isbuscenskij e occupare la quota 213,5. Quella collina permetteva di controllare tutte le vie di comunicazione che dai guadi portano alle linee ferroviarie, vitali per i nostri rifornimenti… Il capitano Abba affida alla mia squadra la ricognizione della quota. Perlustriamo attentamente tutta la zona, coperta di fitti e alti girasoli. Unica presenza, la carcassa di una vecchia macchina agricola, lungo il tratturo. “La quota è completamente sgombra”, riferisco. È buio quando arrivano i rifornimenti. È finalmente possibile dare un po’ di biada ai cavalli e consumare l’unico rancio della giornata. Arriva anche la posta: è bello sentire la vicinanza della famiglia in quelle situazioni…».

Cioffi con il cavallo ViolettoE, finalmente, spunta l’alba. «Da quelle parti comincia ad albeggiare intorno alle 3,30. La squadra del sergente maggiore Comolli è inviata nuovamente in esplorazione alla quota, prima di portarvi il Reggimento. Ma appena si mette in movimento, si scatena un violento fuoco di armi automatiche: durante la notte il nemico ha occupato la quota, protetto dalla rigogliosa vegetazione e approfittando del frastuono circostante. Sparano con le mitragliatrici e con i mortai, ma per nostra fortuna sparano male… Il colonnello potrebbe decidere di ripiegare, ma non è nello stile del “Savoia”. L’alternativa, dunque, è contrattaccare». Quali sono state le fasi dello scontro? «La battaglia è durata tre ore. Lo scontro ha avuto tre momenti ben definiti. Subito la reazione della nostra artiglieria: 10-12 minuti di fuoco ad alzo zero, efficace e instancabile. Frattanto il colonnello Bettoni ordina di caricare il nemico con il 2° Squadrone, al quale si unisce il 2° plotone mitraglieri. Scesi nel fondo-balka, i 120 cavalieri compiono un’ampia conversione e piombano sul loro fianco destro con assoluta sorpresa. L’esito di questa prima carica è travolgente: i russi si accorgono della carica solo all’urlo “Savoia!” dei cavalieri. L’urto è dirompente. Abba, in piedi tra i mitraglieri, vede alcuni cavalieri cadere e urla: “Io vado. 4° Squadrone: baionetta!”. Inizia così la terza fase della battaglia, la più lunga. Appiedati, superiamo d’un balzo gli 800 metri che ci separano dalla quota: dobbiamo ora occupare il terreno. Non possiamo permettere al nemico di riorganizzarsi; dobbiamo andare oltre. I nemici sono tantissimi per noi che siamo solo in 80». Cosa si agita nel cuore dell’uomo nel pieno di un attacco? «Non vi è alternativa: resa, fuga o sangue… Il sangue, al primo impatto, ti fa impressione vederlo scorrere dalle membra lacerate. Poi, per avanzare, devi scavalcare cadaveri, ignorare lamenti e urla di feriti, l’espressione terrorizzata dell’assalito senza scampo. Durante l’assalto non c’è tempo per pensare e non ci possono essere esitazioni: sarebbero fatali». A questo punto la battaglia sembrava vinta… «Avanziamo conquistando metro dopo metro. Ecco raggiunto quel relitto di macchina agricola. Il fuoco nemico si è fatto meno intenso e organico, anche se si spara ancora con accanimento da alcuni focolai di resistenza a protezione della rovinosa ritirata del grosso delle truppe nemiche che stanno scappando verso il fiume. A questo punto, però, il tenente Toja mi comunica: “Il capitano è ferito. Mi sposto al centro per prendere il comando dello Squadrone. Tu vai avanti lo stesso”. Mi sale un gran senso di rabbia... Constatato che il fuoco nemico è scemato e all’avanzata non si frappongono gravi ostacoli, il capitano Abba invia un portaordini al colonnello: “La quota è nostra. Occorrono autocarri per il recupero dei feriti, dei morti e dei materiali”. Ma poco dopo una raffica lo colpisce in fronte, mortalmente. L’entusiasmo per il sorprendente risultato della battaglia è soffocato dal dolore e dalle lacrime. Il nostro Squadrone ha perso 11 cavalieri tra cui l’insostituibile capitano». A battaglia conclusa che idea vi siete fatti della consistenza dei vostri nemici? «Poi si capì che di fronte a noi c’erano due battaglioni di Siberiani, circa 2.500 uomini. Lasciarono sul terreno 250 morti e, nelle nostre mani, 500 prigionieri, circa la metà feriti: furono trasferiti nei nostri ospedali. Il giorno dopo, 25 agosto, fui promosso – “sul campo” – sergente». Fino a quando durò la vostra attività di copertura del fronte? «Ancora per un mese. Alla fine di settembre arrivò in posizione la “Tridentina” e noi potemmo rientrare a Nikitowka, il luogo della sede invernale. Ma era ormai tempo di avvicendamento. Il 24 dicembre raggiunsi Vipiteno, la mattina di capodanno ero a Milano, in famiglia».