Agorà

Europei 2016. La Nazionale azzurra e il dovere di fare meglio

Alberto Caprotti lunedì 4 luglio 2016
Esclusi i Watussi, che nel calcio non risultano possedere una tradizione, a testa alta vanno solo gli struzzi. Ecco, ora che essere "usciti a testa alta" dall’Europeo è diventato l’elogio più speso sulla triste fine dell’Italia del pallone, il rischio è quello di pensare che siamo un paese di struzzi. Che la testa spesso la abbassano anche sotto terra. Per non vedere, per non sentire. Per dimenticare che "però ci hanno messo l’anima", che "tutti hanno giocato con il cuore" e che "erano una squadra vera e unita", non dovrebbero essere variabili da elogiare quando ci sono, ma la regola da pretendere da chiunque faccia il proprio mestiere e sia pure pagato per farlo.  Che il gruppo di Antonio Conte fosse tecnicamente uno dei più scarsi dell’ultimo decennio non può essere un valore aggiunto per esaltarne l’atteggiamento in campo. Essere consapevoli della propria mediocrità insomma è un grande segno d’intelligenza, ma solo finchè non diventa un facile strumento per alimentare anche nel calcio la sottocultura piagnona di un Paese che con la scusa di sentirsi inadeguato poi festeggia dentro le fontane non appena passa il primo turno in un torneo dove essere eliminati subito era quasi impossibile. >>> LA CRONACA DELLA PARTITAE contemporaneamente gode un po’ del voto inglese sulla Brexit, perchè anche gli altri allora ogni tanto una stupidaggine la fanno. No, l’Italia che vorremmo, in campo e sugli spalti, dovrebbe essere migliore di questa. Dovrebbe ricordare che la maglia di Giaccherini una volta la vestiva Rivera, e che se adesso la stelle si chiamano Parolo e Pellè ci si può rassegnare, ma anche chiedersi perchè. E magari sperare in qualcosa di meglio.

Di certo non si può spacciare per un’impresa epica quella di essere arrivati ai rigori contro la Germania senza fare nemmeno un tiro in porta in 120 minuti, come invece è stato detto e scritto. Che "dare il massimo" nella vita è sempre bello ma è anche il minimo sindacale. Il Conte grande condottiero alla testa di una squadra di gladiatori - come se mai in passato fosse accaduto lo stesso - è stato il colossale abbaglio gettato negli occhi agli italiani. Gladiatorie, unite (e decisamente più forti) lo furono anche le nazionali di Sacchi a Usa ’94, quella di Zoff all’Europeo del 2000, per non dire di quella di Lippi al Mondiale tedesco del 2006. >>> EUROPEI 2016, VAI ALLO SPECIALESiamo abituati a soffrire, non è giusto nè corretto esaltare sempre e solo il cuore e l’orgoglio: bene che ci siano, ma tradizionalmente non sono quasi mai mancati. E comunque il cuore da solo non ha mai fatto nemmeno un gol. Da troppo tempo forse abbiamo perso la bussola, ci siamo abituati alla mediocrità, obbligandoci a considerare un evento straordinario qualunque cosa di leggermente migliore ci capiti. Abbiamo bisogno di qualcosa di più insomma di giustificare tutto con la solita "beffa dei rigori", che beffa non lo è mai stata. Del coraggio esaltato a massima virtù. Delle mani nei capelli, icona quasi perenne dei nostri epiloghi. Delle lacrime di questi ragazzi, vere e sincere certo, che commuovono e aiutano a perdonare, ma solo un po’. Soprattutto dobbiamo imparare a fare a meno delle belle frasi di chi ha provato a convincerci che questa squadra stava dando l’esempio al Paese. Falso probabilmente, di certo fuorviante. Ed eccessivo comunque, perchè alla fine sempre e solo di una partita di pallone si trattava.

Forse è arrivato il momento in cui sia il Paese a dare l’esempio alle sue squadre. Uscendo dal piagnisteo di pensiero, dalla difesa a oltranza, dalla logica per cui occorre accontentarsi, della soddisfazione che la Germania "però ci temeva e ha cambiato atteggiamento tattico...". Non facciamo statue: gli eroi, quelli veri, di solito vincono. E se perdono escono anche a testa bassa. Ripartiamo da noi. Dal diritto che abbiamo di non giustificare sempre tutto e tutti. Dal dovere che abbiamo di fare meglio e di più. Per non considerare una mezza vittoria quella che, purtroppo, resta una sconfitta quasi piena.