Agorà

INEDITI. E Caproni avvertì il mistero divino

Marco Roncalli venerdì 23 agosto 2013
« Qualcuno ha detto che io appartengo alla teologia negati­va, quella della morte di Dio: morte nella co­scienza dell’uomo, intendiamo­ci. C’è addirittura chi mi defini­sce ateo. Cosa falsa. Prima di tutto io non sopporto nessuna definizione.Le definizioni limi­tano. Non sono ateo, non sono credente, sono io. Poi 'ateo' mi dà fastidio. È una parola otto­centesca che mi fa venire in mente certi livornesi col sigaro toscano in bocca, la cravatta al­la Lavalliére, i li­beri pensatori. Tutte cose pittore­sche che mi dan­no fastidio. Io pongo solo un li­mite alla ragione.Dico che la ragio­ne umana compie miracoli, ma è de­stinata a imbat­tersi in un muro o arrivare a un ulti­mo borgo oltre il quale non ha ac­cesso. L’uomo di fede fa presto: scavalca il muro, supera l’ultimo borgo, e beato lui. Ma il povero ra­zionalista rimane interdetto: non dice però non c’è Dio, non c’è nulla. Anzi c’è un perso­naggio mio, l’'an­timetafisican­te', che dice: 'Un’idea mi frulla, / scema come una rosa. / Dopo di noi non c’è nulla. /Nemmeno il nul­la, / che già sarebbe qualcosa'. E un altro personaggio, di ri­mando: 'E allora, sai che ti dico io? / Che proprio dove non c’è nulla / - nemmeno il dove - c’è Dio': Come mi si può definire a­teo in questo senso?». Così Gior­gio Caproni dialogando con Sil­vio Riolfo Marengo il 15 aprile 1986 a uno dei 'Martedì lettera­ri' di Sanremo, presentando an­cora in bozze alcune poesie del Conte di Kevenhüller. E all’inter­vistatore che lo pungolava in­terrogandolo sulla presenza del Male dentro questa tormentata ricerca di Dio, il poeta risponde­va: «Io non sono certo un teolo­go, ma in effetti mi pongo da sempre questo problema. I na­zisti portavano il nome di Dio inciso nella cintura.'Got mit uns', Auschwitz… Dio è il mi­stero di tutti i misteri, non si sa nulla di lui. È inafferrabile, ci vi­vifica e ci uccide. Eppure ricerco la sua presenza da anni...». Il te­sto integrale dell’ inedito dialo­go sanremese - tutto da leggere insieme a certe liriche del Muro della terra del ’75: «Dio di vo­lontà, / Dio onnipotente, cerca / (sforzati), a furia d’insistere / ? almeno ? d’esistere»,oppure: «Sta forse nel non essere / l’im­mensità di Dio?» - , appare ora sulla rivista 'Resine', insieme ad altre interviste, saggi, lettere e poesie inedite. Insomma: pa­gine ritrovate di un autore che confidava di aver posto al cen­tro del suo cammino poetico (i­niziato nel 1936 pubblicando Come un’allegoria) -più che il tema della città o del viaggio, dell’esilio o della madre - quello della 'ricerca': pur glossando «di che cosa non lo so nemme­no io». Nel nuovo numero di 'Resine', più in particolare, no­te critiche e ragioni sentimenta­li s’intrecciano lungo le diverse sezioni costellate di testi. Ora a lumeggiare l’iniziazione poetica di Caproni nella Genova all’alba degli Anni ’30 (quella di 'Espe­ro' e di 'Circoli' con la sua pre­coce acquisizione di un codice linguistico autonomo), ora scandagliando i contatti con l’ambiente roma­no, ora rendendo conto del lavoro poetico ( Il franco cacciatore del 1981, Tutte le poe­sie del 1983...) per­sino nella mania­cale attenzione al­la struttura forma­le, spazi vuoti e scostamenti compresi («cellule piene di senso in sé», le aveva definite Gramigna). Controcan­to umanissimo di questi testi il leit motiv dell’amicizia dichiara­ta (con Libero Bigiaretti, Franco Ciarlantini, Angelo Barile, Arri­go Bugiani, Mario Luzi, Davide Puccini, Sbarbaro, Pasolini, lo stesso Riolfo), legato ad una poesia nel corso del tempo sem­pre più essenziale, aspra, ironi­ca. «Solo, nella foresteria, / sta­zioni di posta per il cambio dei cavalli / che resta di me, nella mia notte? / Giunto dove la stra­da batte a un muro / come una martellata sulla rosa / della mia bocca più dura e più viva / della morte». «Non era il vento, ho / lo schianto che mi frantuma / la voce - che martella / la rosa di fuoco e di cenere / della mia bocca, vecchia / già di un mil­lennio? », così due liriche non datate .E ancora: «Il nome avvi­cina alla morte? / No. Il nome è la morte», così un’altra del 1985. Con i versi del «musicista man­cato » come si autodefiniva Ca­proni, anche pagine di prosa.Come quelle recuperate dalla ri­vista introvabile 'Il fiore', inser­to culturale del mensile munici­pale torinese, che hanno al cen­tro Roma. La città dove il nostro, fresco delle sue prime plaquette poi raccolte in Finzioni e fresco di nozze con la moglie Rina, giunse l’1 novembre 1938 per prendere servizio come maestro elementare in Trastevere re­standovi sino alla Pasqua ’39 quando fu ri­chiamato alle armi, alternan­do da lì, sino al­la fine della guerra, pause romane, impe­gni militari, la guerra partigia­na, fino al 1945…Ma an­che la Roma do­ve, più tardi, ac­colse Pasolini: «venne per la prima volta a casa nostra all’i­nizio degli anni Cinquanta. Fu Gatto a indiriz­zarlo da mio pa­dre, che però già lo conosce­va avendo re­censito molto favorevolmente alcune sue poe­sie », ricorda il figlio di Caproni Attilio Mauro.Ne vien fuori una capitale ­commenta Domenico Astengo ­«in controluce, intima, quasi provinciale, lontana dai luoghi deputati - mura ed archi - per cui i giovani scrittori,come Ca­proni, non vogliono spendere troppo amore». Roma dunque luogo dell’esilio, definita quasi con rancore «enfasi e orina» e «regno delle tenebre», contrap­posta a Genova, dov’è perfino «gentile morire». Nei fatti grazie ad essa Caproni poté sostenere la sua famiglia, farsi apprezzare e lasciare traccia di sé. Anche se i versi del poeta, quasi interro­gandoci sul senso del viaggio della vita, ammoniscono:«Tutti i luoghi che ho visto, / che ho vi­sitato, / ora so - ne son certo: / non ci sono mai stato».