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Cinema. Capolicchio: «Da 50 anni sono qui nel mio “Giardino”»

Massimiliano Castellani venerdì 27 novembre 2020

Dominique Sanda e Lino Capolicchio in una foto di scena del film 'Il giardino dei Finzi Contini' dii Vittorio De Sica. Sopra Capolicchio oggi a 77 anni

Nel mondo dei sogni di celluloide, una delle figure maschili più eteree è quella di Lino Capolicchio. Un volto curioso, affascinante, sottilmente ironico quanto sfuggente a ogni inquadratura fuori dallo schermo, avvezzo fin da quel 4 dicembre del 1970, giorno in cui uscì nei cinema Il giardino dei Finzi Contini, a parlarci «recitando con l’anima», quindi, «sottovoce ». Come gli aveva insegnato il “Commendatore”, Vittorio De Sica che lo diresse in quel film da Oscar (miglior pellicola straniera del ’72). Nella valigia dell’attore, sex symbol certificato («mi hanno accostato spesso ad Alain Delon»), del regista (anche lirico) dello sceneggiatore e del docente talent-scout (maestro di Francesca Neri, di Paolo Virzì e del Pierfrancesco Favino “debuttante”, nel ’95, nel suo film da regista, Pugili), può vantarsi morettianamente di aver fatto cose, «moltissime», e di aver visto gente, «tanta, troppa», in più di mezzo secolo di onoratissima carriera. Capolicchio osserva la luce «essenziale nella mia idea di cinema, e Vittorio Storaro lo sa bene...». Scruta il mondo e l’animo umano con piglio estetico, da critico d’arte, perché dice «la pittura è la mia seconda ossessione, dopo il cinema». Da quel ’70 catartico, in cui la cosa più normale che gli capitò fu «fare il baby-sitter al figlio di Joan Baez», vive tutto con il disincanto dell’uomo senza tempo, senza dogmi e tanto meno con spirito religioso, come invece fa Pupi Avati, fratello di set dai tempi de La casa dalle finestre che ridono( 1976), di cui è stato alter ego in Jazz Band, fino all’ultimo dei nove film girati insieme: Il signor diavolo( 2019). «Il prossimo film? Ho scritto un soggetto sull’ultimo anno di vita dello scultore Antonio Canova. A Storaro è piaciuto, ora speriamo piaccia a qualche produttore», annuncia il cinefilo Capolicchio, collezionista di cimeli del cinema muto, che custodisce assieme alla compagna Francesca nella «casa museo» sulla via lattea della campagna romana, quella dei «latticini prelibati» di Fondi.

Pellicole conservate gelosamente, come i frammenti di memoria e quelle vicende personali caravaggesche, che, da quando ha diciotto anni, non fa che trascrivere su diari, ora trasposti nell’autobiografia fluvialeD’amore non si muore (Rubbettino Editore). Un continuo flusso coscienziale di anedottica e riflessioni declamate, di notte, come faceva con l’Alfieri da bambino a Merano – la città dove è nato nell’agosto del ’43 – per impressionare la sua prima spettatrice e anche la donna che gli predisse un futuro da attore. «Era la “nonna Nera”. Lei mi portava sempre in un cinemino di Merano e dopo il film di Tarzan o dei miei eroi preferiti mi comprava un cono con su la panna montata e uno spruzzo d’amarena... Una delizia». Dolce come Il posto delle fragole del suo regista più amato, Ingmar Bergman. Studiato a fondo, come la recitazione all’Accademia nazionale d’arte drammatica Silvio D’Amico, con compagno di corso Giancarlo Giannini. Dopo il diploma debutto nel ’64 con Giorgio Strehler al Piccolo Teatro di Milano ne Le baruffe chiozzotte di Goldoni. L’anno prima dell’apoteosi, nel ’69, è il contestatore Ric in Metti una sera a cena del «paterno» Giuseppe Patroni Griffi e Giordano per Dino Risi, nel titolo che era l’antitesi del Capolicchio attore, Il giovane normale.

Infatti De Sica, sul set de Il giardino dei Finzi Contini, si accorse subito dello straordinario talento, e a mamma Capolicchio confiderà: «Suo figlio è il nuovo Mastroianni».

Mia madre venne sul set e pretese di parlare con De Sica come di solito un genitore fa al ricevimento scolastico dei professori. La vidi tornare in lacrime da quel colloquio, orgogliosa, e stupita come è rimasta fino a 90 anni quando è morta, per il fatto di aver generato un figlio così geniale, uno che – poi mi confessò – la impressionava, perché ogni cosa che faceva, con estrema naturalezza, poi diventava un successo.

Il giardino dei Finzi Contini fu un trionfo planetario, e il suo personaggio, Giorgio, alter ego del Giorgio Bassani autore del romanzo omonimo (pubblicato da Einaudi nel 1962), allora fece perdere la testa all’attrice francese Dominique Sanda (Micol) e cinquant’anni dopo riesce ancora a far innamorare le ragazze.

Vero. In America venni accolto come un divo e quest’aura resiste in Israele dove il film viene ancora proiettato nelle scuole e le ragazzine restano folgorate da “Giorgio-Capolicchio”. Bassani era stato il mio professore di Storia del Teatro in Accademia, e quando venne a trovarci sul set mi commosse quando disse: «So che girerete l’esterno di casa mia a Ferrara, così avrà modo di conoscere mia madre, le porti i miei saluti mi raccomando! ». Lo presi sul serio, come fosse un impegno reale a cui adempiere.

Poi però Bassani, indignato per alcuni passaggi non fedeli al romanzo ruppe con De Sica e chiese di non comparire nei titoli di coda del film.

La sceneggiatura di Ugo Pirro ovviamente non tenne conto di quella più prosaica di Bassani, però, nonostante alcune modifiche, De Sica ebbe comunque un profondo rispetto del romanzo, rendendolo più universale anche nel suo messaggio di condanna dell’antisemitismo. Oggi, più che mai, antisemitismo e razzismo lo esercitano arbitrariamente quegli uomini mediocri che credono nel diritto del più forte. Io da sempre sto dalla parte degli oppressi, dei più deboli.

Suo padre, che non ha praticamente conosciuto e che lo ha spedito in collegio deplorava questa sua «eccessiva sensibilità».

Beh, ringrazio sempre mia madre che ha sostituito egregiamente anche la figura paterna che interpretava quella mia sensibilità in maniera quasi equivoca, femminea. Penso di averlo smentito ampiamente con la collezione delle tante donne conquistate e di aver onorato la memoria di De Sica e Patroni Griffi, che ho pianto quando sono morti, come due veri padri.

Il Capolicchio privato sì sa, è un re di cuori che forse avrebbe meritato il personaggio del Casanova di Federico Fellini.

Quel film a differenza di altri di Fellini mi è piaciuto. Avrei dovuto girare Satyricon con lui, ma non se ne fece nulla, e forse è stato meglio così... Fellini mi dava l’impressione di uno che, a parte Mastroianni, non amasse gli attori. Il contrario di Strehler, che invece viveva per gli attori, il suo genio risiedeva nella capacità di porsi sempre sul nostro stesso piano.

Parla da innamorato del Piccolo, grande teatro. L’ossessione del cinema mi ha spesso portato lontano dal teatro dove l’apice l’ho raggiunto con Elio Petri alla regia e le 150 repliche de L’orologio americano di Arthur Miller. Una sera venne a vedermi Mastroianni... alla fine dello spettacolo Marcello spalancò la porta del camerino e disse: « ’A Lino, bravo! M’hai fatto piagne lo sai? ». Sì, per il cinema ho tradito il teatro e rinunciato a due grandi sogni giovanili: recitare Cechov e impersonare Amleto, nonostante Vittorio Gassman me lo ripetesse a ogni nostro incontro: «Lino, ch’hai il fisico e l’età giusta, ma che aspetti a farlo?». Mai fatto, e così non sono diventato Amleto.

Non è diventato neanche il «nuovo Mastroianni », come voleva De Sica. Come se lo spiega?

Non sono stato mai capito fino in fondo. Ritengo di avere un talento superiore rispetto a quello che hanno pensato produttori, registi e critici nostrani, i quali molto spesso hanno preferito non prendere in considerazione un attore atipico come me e puntare sulla tradizione italica e provinciale delle “maschere”: il romanaccio, il milanese, il napoletano... Io non ho mai ceduto alla mascherata e non sono caduto nel classico cliché che va tanto di moda, ho sempre interpretato un personaggio diametralmente opposto a quello del film precedente perché credo nell’arte del trasformismo, in cui gli americani rimangono dei maestri insuperati.

Tra i suoi allievi del Centro Sperimentale è uscito forse l’ultimo trasformista del nostro cinema, Piefrancesco Favino.

Avevo visto giusto con Favino. Lui fa eccezione, come Elio Germano: non recitano mai se stessi, come invece fa da sempre qualche nostro finto mostro sacro... E allora rabbrividisco quando penso che un genio assoluto come Stanley Kubrick non ha vinto l’Oscar per la regia.

Trova forse immeritato anche l’Oscar di Paolo Sorrentino per La Grande bellezza?

Lì ha prevalso la Roma suggestiva che ha stregato gli americani. Premetto che Sorrentino, con Tornatore, è il regista italiano tecnicamente più bravo, ma la sceneggiatura de La grande bellezza non mi convince. Mi mandò a chiamare due volte prima che cominciasse le riprese del film e credo che per il personaggio dello scrittore di provincia sedotto e abbandonato da Roma, poi interpretato da Carlo Verdone, Sorrentino forse avesse pensato a me, dato che nella prima stesura si trattava di un milanese... Ma non ho conferme, non l’ho più sentito da allora.

Meglio il cinema di Paolo Virzì?

È stato mio allievo anche lui, un ragazzotto livornese scrupoloso, puntuale e attento alle lezioni come pochi ne ho visti. Un giorno l’incontro e gli faccio: Paolo, ma lo sai che sei veramente bravo a dirigere gli attori? E lui ridendo mi risponde: «Per forza, ho imparato da te». È il complimento più schietto e divertente che ho ricevuto, dopo quello di Oliver Stone – sorride . L’ho conosciuto la scorsa estate a Venezia dove mi premiavano per la fiction su Celestino V di Giuseppe Tandoi , e a Stone mi presentarono come il protagonista de Il giardino dei Finzi Contini. Lui, entusiasta, mi urlò un «Very good!» che a volte ancora lo riassaporo, come il cono dopo il cinema con nonna Nera.