Agorà

La mappa. Cento Giri, cento campanili

Massimiliano Castellani mercoledì 3 maggio 2017

Il ciclismo, la Corsa Rosa, è un attimo senza fine. E un «Amore infinito» è lo slogan, l’effigie del trofeo dorato e il passaparola che pedalando scivolerà, da nord a sud per lo Stivale in questo Giro d’Italia 2017. Il Giro, fin dal 1909, l’hanno fatto i campioni e le loro gesta da piccoli e grandi eroi esemplari della bicicletta. Un’epica cantata da illustri scrittori, da Dini Buzzati a Alfonso Gatto, da Vasco Pratolini a Achille Campanile che, da inviato della “Gazzetta del popolo” di Torino, si inventò un eroe tutto suo, Battista va al Giro d’Italia. Una “finzione” letteraria – il servo di Campanile, Battista e la sua “Squadra dei sempre in coda” – che partecipa oniricamente all’edizione del 1932, la numero 20, quella vinta, nella corsa reale, da Antonio Pesenti, il gregario del grande Alfredo Binda.


Sono i nomi di condottieri ma anche di uomini umili, gregari appunto, al servizio del gruppo, con cui sono cresciuti e hanno sognato ancor prima di diventare i quattro moschettieri della “cronaca rosa” – quella, si intende, della maglia più ambita dai ciclisti di mestiere –: Indro Montanelli, Enzo Biagi, Gianni Brera e Sergio Zavoli. Sono gli artefici con stili e stiletti ineguagliati di racconti di guerra sui pedali, di cronache da strapaese, di angioleschi e diavolerie tra Coppi e Bartali, di leggendari Processi alla tappa. Ma le loro narrazioni, allora come adesso che il Giro taglia il traguardo delle 100 primavere, non avrebbero un senso senza lo sfondo unico, il protagonista assoluto che da sempre è il Belpaese. Un percorso naturale che cambia continuamente scenografie, come cambiano le facce del pubblico non pagante che attende la carovana rosa ai bordi dei marciapiedi delle città, sui viali delle periferie, sugli stradoni di campagna ai traguardi volanti e sabbiosi in riva al mare.


Ogni piazza, ogni campanile, rimanda alla memoria di quei piccoli grandi eroi che fecero l’impresa o che magari bucarono copertoni come destini, per sempre, senza la possibilità di correre un’altra tappa di rivincita. Questa è la Storia e la geografia del Giro d’Italia, libro omonimo (Utet, pagine 236, euro 15,00) di Giacomo Pellizzari. Il Giro dei “cento passi” di montagna, con quei nomi poetici che fanno parte di una geografia interiore e popolare, come il Pordoi della fuga in solitaria di Fausto Coppi, le Tre cime di Lavaredo che consacrarono il mito di Eddy Merckx, il Bondone di Charly Gaul, il Mortirolo di Pantani, lo Stelvio e la sua Cima Coppi a 2.578 metri. Ma anche la Majella (con la salita del Blockhaus, dislivello pauroso di 2.039 metri), il Terminillo, il Gran Sasso con il suo Campo Imperatore dove con gli sci ai piedi se ne andava “in fuga” – di nascosto dagli occhi indiscreti di fotografi e giornalisti – anche un ciclista amateur come papa Wojtyla.


Ma questa è un’altra storia. La prossima storia, quella del Giro del centenario prenderà il via dalle due isole, Sardegna (partenza da Alghero il 5 maggio) e Sicilia, le terre degli eroi dei nostri tempi, Fabio Aru e Vincenzo Nibali. Ma la corsa rosa ha il suo punto di forza nella memoria collettiva del Paese, e questa deve rendere omaggio a Gino Bartali e alla sua Ponte a Ema. Il paese natale di Bartali, “Gino il Giusto” – come testimonia anche il Museo che gli dedica Firenze in cui si ricorda la grande bellezza dell’anima del campione e del “salvatore", in sella alla sua bici staffetta, di centinaia di uomini (per lo più ebrei) durante la dittatura nazifascista. C’è un museo e un monumento vivente anche all’arrivo di Forlì. La patria del più anziano vincitore del Giro (quello del 1958), Ercole Baldini, e quel museo (accanto alla sua casa di Villanova) lo tiene aperto a spese proprie l’“Elettrotreno di Forlì”. Tra cimeli, libri e scatti di una vita ci ricorda che come l’Ercole nessuno mai: fu titolo olimpico a Melbourne, maglia rosa e iridata di campione del mondo, più un record dell’ora nel ’56, strappato al francese Jacque Anquetil.


Viva l’Italia, specie al traguardo di Reggio Emilia che festeggia i 220 anni del tricolore. Mistica del Giro è quella che in una sola tappa consacra due campionissimi: partenza da Castellania, terra di Fausto Coppi, e arrivo al santuario d’Oropa, teatro dell’impresa di Marco Pantani. Il “Pirata” di Cesenatico, distante ma non troppo dalle colline di Bagno di Romagna. Scatti radenti ai filari delle vigne del Sagrantino di Montefalco. Paesaggi dipinti dal Perugino e dal tosco Benozzo Gozzoli in un tracciato che disegna traiettorie verso sud. Un tuffo sull’adriatica Gargano (a Peschici) per sprintare fino ai candidi trulli di Alberobello. Dallo Jonio al Tirreno nella Calabria delle Terme Luigiane, attraversando lo stretto di Messina per arrampicarsi fino alle pendici del vulcano più attivo e più alto d’Europa, l’Etna. Lassù, in cima a quella che i siculi chiamano il fumante Mongibeddu (Mongibello) nel 2015 ad attendere il conquistatore spagnolo Alberto Contador salirono in trecentomila.


Folla festante che accomuna l’arabeggiante Cefalù all’orobica Bergamo di Felice Gimondi e all’altipiano di Asiago caro ai ciclofili quanto al suo narratore principe Mario Rigoni Stern. Il cordone umano, dall’autodromo di Monza scorterà l’ultima coda dell’eterno serpente multicolore fino al Duomo di Milano. La città dove questa lunga, infinita storia d’amore tra l’uomo in rosa e la bici ebbe inizio. Il sogno di tre visionari («girare tutta l’Italia in bicicletta»): Tullio Morgagni, Armando Cougnet e Eugenio Camillo Costamagna, cominciato il 13 maggio 1909 continua. Anzi accelera, all’infinito, sulle ali di quell’entusiasmo che, scrisse Costamagna, «è come l’onda del mare sollevata del vento». Cent’anni di gratitudine all’eterna brezza vitale del Giro.