Agorà

Il fenomeno. Calcio e guerra, la sfida infinita degli esiliati

Stefano Scacchi giovedì 26 ottobre 2017

I calciatori della Siria dopo la sconfitta con l'Australia agli spareggi per i Mondiali 2018

Papa Francesco l’ha definita «la terza guerra mondiale a pezzi». Anche il calcio la sta vivendo sulla sua pelle. Sono sempre più numerose le squadre nazionali o di club costrette a giocare in esilio, lontano dalla loro casa abituale a causa dei conflitti in corso. Le cronache recenti sembrano che abbiano voluto mettere volutamente in copertina le loro storie per ricordare a tutti il livello di belligeranza diffuso soprattutto nell’area mediorientale, centroeuropea e caucasica del pianeta. Tutti gli appassionati di calcio europei si sono commossi per il Qarabag, prima squadra azera capace di conquistare un punto nella fase a gironi della Champions League. Impresa riuscita addirittura contro l’Atletico Madrid, vicecampione d’Europa nel 2014 e 2016, fermato sullo 0-0 a Baku. Ma il Qarabag non è solo una squadra azera. È un simbolo di resistenza calcistica: ricorda come questo sport possa diventare un buon motivo di distrazione da problemi enormi per tantissime persone. La formazione, allenata dall’ex bomber Gurban Gurbanov, rappresenta la «città fantasma più grande del mondo»: Agdam, 60mila abitanti prima della guerra tra Azerbaigian e Armenia per il controllo del Nagorno Karabakh, ora un cumulo di detriti abbandonati. Il Qarabag tiene vivo il ricordo di quella città giocando a Baku e ricevendo il sostegno degli esuli azeri di quella terra martoriata. Dal 2014 è costretto all’esilio anche lo Shakhtar Donetsk, unica squadra in grado di battere il Napoli di Sarri in questo avvio di stagione. L’ex formazione di Mircea Lucescu, ora affidata a Paulo Fonseca, ha dovuto abbandonare la nuova Donbass Arena a causa del conflitto tra Ucraina e Russia. L’impianto, rinnovato per gli Europei 2012, è stato danneggiato dai combattimenti. Lo Shakhtar ha trovato ospitalità prima a Leopoli e da gennaio 2017 a Kharkiv, più vicina a Donetsk: 300 chilometri di distanza. I giocatori dello Shakhtar non hanno mai smesso di aiutare la popolazione della città del Donbass continuando a inviare aiuti alla popolazione.

Ancora più serio il problema per alcune Nazionali. Anche in questo caso l’attualità ha fatto da megafono per una situazione drammatica, quella della Siria la cui Nazionale ha sfiorato la qualificazione mondiale. Considerata da alcuni la selezione del regime, la Nazionale è stata accolta tre giorni fa a Damasco da Bashar Assad che ha usato toni molto reto- rici per celebrare l’impresa sfumata solo all’ultima partita contro l’Australia. Ma tra i giocatori ricevuti nel palazzo presidenziale c’erano anche due ex dissidenti, all’inizio della guerra civile fotografati con la bandiera dell’opposizione: Omar Al-Soma e Firas Al-Khatib. In particolare Al-Khatib aveva inizialmente scelto di anteporre la politica al calcio lasciando la Nazionale, dopo 26 gol in 51 partite, per un segno di ribellione al regime. Ma la possibilità concreta di andare ai Mondiali ha convinto Al-Khatib a ripensarci. La Siria è arrivata a un passo da Russia 2018 disputando le sue partite casalinghe in Malesia a 7mila chilometri di distanza da Damasco. Non è stato facile trovare un Paese disposto a ospitare la Siria, per solidarietà nei confronti di una popolazione allo stremo sotto i colpi dell’esercito di Bashar Assad e dei suoi alleati internazionali (proprio la Russia nazione ospitante dei Mondiali) e dei terroristi dell’Isis: era stata avviata una trattativa con Macao, ma poi è stata la Malesia ad accettare. L’opposizione siriana aveva provato a organizzare una selezione alternativa che rappresentasse la parte del Paese contraria al regime, ma non è stato possibile realizzare questo progetto.

Vive una situazione simile la Libia che ha disputato le ultime partite casalinghe delle qualificazioni mondiali sul campo neutro di Monastir in Tunisia. Sta invece cercando di ritrovare una normalità calcistica l’Iraq. Nel 2015, per la qualificazione alla Coppa d’Asia, i calciatori della selezione mediorientale avevano traslocato a Dubai. Adesso invece alternato partite ufficiali in campo neutro - le ultime casalinghe sulla strada di Russia 2018 a Teheran (impensabile fino a qualche anno fa vedere l’Iraq chiedere ospitalità all’Iran) - e amichevoli all’interno dei confini iracheni: le più recenti a Bassora. Un caso curioso è andato in scena in Europa a ottobre 2016 quando la partita tra Ucraina e Kosovo, valida per le qualificazioni al Mondiale 2018, è stata giocata a Cracovia in Polonia perché la diplomazia di Kiev non riconosce il Kosovo (evidente riflesso dello status della Crimea annessa dalla Russia). Per questo motivo i calciatori di Pristina non avrebbero potuto entrare in territorio ucraino con i loro passaporti. Ma ormai le tensione geopolitiche penetrano ovunque. Ultimo esempio: la recente rinuncia del nordcoreano del Perugia, Han, ad andare in diretta tv alla “Domenica Sportiva”. Una marcia indietro, pare, motivata da pressione arrivate dal governo di Pyongyang. D’altronde la presenza di giovani calciatori nordcoreani in Italia non è mai passata inosservata, nemmeno per la diplomazia della Corea del Sud. L’accusa è quella rivolta a tutti i nordcoreani all’estero: girare parte dei loro guadagni al regime di Kim Jong-Un. Vale anche per calciatori che hanno poco più di 18 anni, coinvolti in un gioco più grande di loro.