Agorà

Il personaggio. Brivio, si fa presto a dire Gufi

ANDREA PEDRINELLI domenica 31 gennaio 2016
Sarà anche vero, come dice con ironia, che oggi fatica a portare in scena nuovi spettacoli causa difficoltà di memoria, oltre che per il disinteresse di produttori e sponsor per la cultura; però parlare con Roberto Brivio, attore, drammaturgo, cantante, impresario e quant’altro, nella storia del teatro e della canzone italiana in più modi (Gufi in primis), significa fare un viaggio proprio nella memoria del grande spettacolo italiano. Un viaggio che prende le mosse dal libro Facce da… spettacolo, costruito per Book Time (pagine 196, euro 16,00) affiancando alle caricature di Bruno Prosdocimi (negli anni Sessanta pronto pressoché ogni sera a ritrarre il gotha allora in scena a Milano) le interviste di Andrea Ancona e i ricordi/riflessioni di Brivio medesimo; un viaggio che prosegue passando per i cinque anni – con dodici Lp annessi – dei Gufi, antesignani di qualunque cosa nella nostra canzone e capaci di fare ad alti livelli satira, cronaca, umorismo, denuncia civile e poesia; un viaggio che giunge all’oggi e ai prossimi progetti di Brivio – compreso il sogno della reunion gufica – finendo col rimarcare sempre più, per quanto con eleganza, quanto lo spettacolo di cui Brivio è alfiere si possa scrivere con l’iniziale maiuscola, certo, mentre quello di oggi (dal cabaret alla tv alle canzoni satiriche dei troppi noneredi dei Gufi) è già tanto se vale due righe… scritte in minuscolo. Che spaccato dell’arte teatrale le ha consentito di ricostruire, il lavorare a questo volume? «Qualcosa che va oltre il ricordo del passato. C’era un mondo, subito dopo che mi diplomai all’Accademia dei Filodrammatici nel ’59, che popolava Milano e da lì partiva per diffondersi in tutta Italia: e andare la sera in certi locali significava conoscere i protagonisti della scena, capirne i meccanismi. Certo il libro avrebbe potuto essere solo di caricature, ma esse aprono una finestra su una realtà composita, in cui l’arte era a contatto con cronaca e politica. Per questo Ancona, con cui ho scritto un libro sulle truffe agli anziani, ha approfondito con interviste, e io ho invece l’ho fatto legando i ricordi teatrali a quelli degli avvenimenti storici. Era tutto molto diverso da oggi, con figure da cui imparavi molto». Fra le tante figure che rievoca c’è qualcuno che sente ingiusto sia stato dimenticato? «Mi piacerebbe si ricordassero di più i comici, Walter Chiari su tutti: era il numero uno, con lui capivi i tempi drammatici e l’essenzialità, non solo a far ridere. E Piero Mazzarella come attore avrebbe dovuto avere un’eco ben diversa: come Laura Adani che fu la prima a usare le barcacce o Franco Volpi e Luigi Cimara, attori di personalità e grande stile». Si ricordano poco anche i Gufi, in verità: visto che però eravate a dir poco poliedrici, qual è per lei il meglio del caleidoscopico repertorio del gruppo? «I Gufi erano il meglio. Avevamo un’impronta che nessuno ha mai saputo riprendere. Li ho odiati, gli altri, quando hanno voluto sciogliersi: facevamo il tutto esaurito ovunque vendendo i biglietti un anno prima… Però Magni seguì il consiglio di mettersi in proprio e finì nel cabaret, e poi Svampa e Patruno decisero per un trio con Franca Mazzola – dopo che avevano rifiutato di portare una donna nel quartetto quando Marcello Marchesi ci diceva che, se avessimo preso una Gisella Pagano, ci avrebbe portati stabili in tv... Le cose dei Gufi vanno oltre, come contenuti e capacità di leggere la realtà, lo stile dell’epoca in cui le abbiamo scritte; e vanno oltre pure le provocazioni per cui alcuni ci dicevano iconoclasti. Io stesso, pensi, l’ho capito dalle tesi fatte sul nostro lavoro: avremmo potuto fare tanto ancora». Invece non vi siete riuniti che una volta, per poco… «In verità dovevamo riunirci, io Svampa e Patruno [Magni è scomparso giovane, ndr], un paio d’anni fa: dopo il tutto esaurito di una serata unica al Nazionale di Milano. Però Nanni ha avuto problemi di salute e la cosa non si è fatta. E farla ora è difficile. Pensi, il mio sogno è rimettere in scena i “miei” Gufi, macabro, storico, siculo maccheronico, sociale, in un musical: ma già così, da solo, vedo gli sponsor nicchiare, figurarsi se fossimo tutti e tre». C’era un segreto, nel lavoro dei Gufi? «Non eravamo canzoni e basta. C’erano i testi di Luigi Lunari, a legare i passaggi degli spettacoli. E anche Lunari va riscoperto, scrive ancora, io ho pronto un suo lavoro intitolato Oh che bella guerra sul ’15-’18 per narrare le nefandezze dei conflitti…» Come facevate a non scadere mai nel becero, a fare satira senza essere volgari? Perché dunque si può… «Certo che si può. Intanto si mettono le intenzioni intellettuali e culturali davanti a tutto, e poi non è che devi far sempre ridere. Il problema è che nel tempo il livello si è abbassato sempre più: datemi un programma senza esigenze di audience, adagio adagio e senza pretendere sempre lo sghignazzo lo porterò a essere seguito da tanti. Ma è più facile dire una parolaccia e avere il riscontro del riso immediato». Già: infatti nel Sanremo scorso degli pseudo-comici hanno riso della morte di molti cantanti: lei era detto il “cantamacabro”, ma con quale eleganza… «Io mi scontravo con la superstizione, quando ironizzavo sulla gente che ai funerali parla d’altro. Ora la morte è spettacolo e le si manca di rispetto». Come sta lo spettacolo in Italia nel 2016? «Si fa tanto, solo a Milano ci sono quaranta teatri sovvenzionati: e puntano su vecchi testi rivisti. Io punterei su autori nuovi, o almeno su testi inediti».  E quali sono i progetti del 2016 di Brivio? «Oltre al musical sui Gufi un libro scritto con Mazzarella, titolo provvisorio Un Gufo alla corte del Tecoppa [carattere teatrale milanese di cui Mazzarella è stato interprete sommo, ndr]. Ho intervistato Piero e aggiunto ai suoi ricordi i miei, su Lucio Flauto, sulla Mondaini… Lui era grandioso: una sera di tregenda nel mio teatro all’aperto a Villa Clerici, pur se davanti a poca gente e sotto il diluvio restò sul palco da solo per due ore portando il testo sino in fondo. Ma questo è fare teatro, no?»