Agorà

La canzone si racconta . Jessica Brando, la fatina del Pop

Andrea Pedrinelli sabato 27 agosto 2016
C’era una volta la Emi, casa discografica che negli anni ’50 stampigliava sui vinili “la più importante organizzazione discografica del mondo” e nei ’60 consegnò al mondo stesso l’opera dei Beatles. Oggi la Emi non esiste più, è stata assorbita da una delle tante multinazionali che si dividono il mercato della musica. Tante? Beh, insomma… tre: numero che ben spiega l’omologazione opprimente e la sterile corsa a imitarsi a vicenda di industrie che, ormai prive di creatività, si limitano a distribuire i lavori dei “grandi” (i quali per disperazione si producono tutti da sé) investendo solo nelle opere prime e seconde di virgulti scelti tramite la tv dei talent. Investono meno nelle opere terze di costoro, ma perché è dura vi arrivino artisti – per dirla con Cochi e Renato, anno di grazia 1975 – «lanciati sul mercato sottostante»: ossia seguendo la logica di accaparrarsi l’uovo di oggi senza pensare che tale uovo, aperto e bevuto in fretta e furia, mai produrrà galline domani. Tantomeno galline che cantino. Comunque la storia che vi raccontiamo – con le parole della sua protagonista, a occhio più fata o principessa che pollame – è una storia di quando la Emi c’era, aveva succursale italiana e osava investire ancora su talenti scoperti “sul campo”, come accadeva quarant’anni fa. Tale storia è una favola agrodolce e come tutte le favole ha una morale: morale che spiegherà bene i limiti del far davvero musica oggi, nonché i problemi dei nostri ragazzi di talento (ce ne sono, pure nei talent show) a costruirsi nella musica un vero domani. Ma basta introdurre: andiamo, ora, a raccontare. C’era una volta la Emi, dunque. E nel 2009 la Emi invase segreterie telefoniche, caselle di posta ed e-mail dei giornalisti per lanciare tale Jessica Vitelli di Grosseto, anni quindici. La fanciulla, in arte Jessica Brando, aveva fatto scuole di canto e danza e vinto borse di studio, al- ternava liceo e musica e possedeva caratteristiche uniche. Nell’ordine: famiglia attenta a che non venisse bruciata; intelligenza e rigore diremmo etico nelle scelte; cultura musicale lontanissima dal nulla tipico dei coetanei (citava Etta James a modello, fate voi); voce splendida, ampia, brunita fra blues e jazz. E con detta voce Jessica giunse sulle nostre scrivanie di critici musicali cantando, in modo strabiliante per l’età, cover di Muse e Lenny Kravitz prima (nell’Ep d’esordio a suo nome) e canzoni di giovani autori poi (nel primo Cd vero, Dimmi cosa sogni del 2010). In due anni il battage su Jessica Brando fu talmente forte, e lei del resto era talmente brava, che se ne parlò e scrisse a go-go. Commentandone pure una finale a Sanremo Giovani 2010 e (se ci credete) un libro. Poi, silenzio: ma non nostro. Fine dei comunicati, del battage, dei dischi, degli argomenti su cui scrivere. Cos’è successo? Jessica ha lasciato? In parte sì. Ha lasciato la Emi: perché – dice lei, oggi ventunenne – «non mi sentivo protetta e tutelata, né musicalmente né legalmente». Però non ha affatto lasciato la musica, che fa negli Usa dove è pure modella di successo. Lì Jessica Brando, che mentre qui era fuori dai radar è stata pure candidata a un Grammy Latino (nel 2012 per un brano con Maria Gadù, artista molto popolare dentro e fuori il Brasile), fa concerti e incide. Ovviamente però autoproducendosi, e restando ben lontana da questo nostro Paese evidentemente incapace di portarne la favola di vero talento al finale tradizionale, «vissero tutti felici e contenti». Lei partì dal web: la Emi la trovò lì… «Perché il web è un’opportunità, ma attenzione, solo se alla base c’è un progetto concreto. La cover di Video killed the radio star che feci nel 2008, da Youtube mi portò in Emi perché era una cosa seria». Pensa di aver poi pagato la sua voglia di divenire artista a 360°? In Italia lo è solo Massimo Ranieri… «Io ho studiato piano, canto, danza e recitazione perché ritengo che per lavorare nello spettacolo si debba avere una preparazione completa. Però è vero, in Italia non c’è questa mentalità: se una cantante fa anche altro diviene “showgirl”, perde credibilità…». Com’è andata nei due anni in Emi? Si è sentita usata? «Quello no. Ho fatto esperienza e stabilivano tutto con mia madre. Però forse hanno interrotto troppo presto quello che lei chiama “incredibile battage”… E per il disco dovetti scegliere i brani seguendo i consigli del team Emi, avevo quindici anni e nessun manager… Però fra le cose imparate, anche proprio da quel Cd che avrebbe dovuto supportarmi dopo Sanremo ( Jessica sottolinea «avrebbe dovuto» con forza, ndr), c’è stato il concetto che ogni artista deve avere un manager e un avvocato che gli facciano da tramite con la major. Perciò ho preferito chiudere il contratto: perché alla fine non mi sentivo protetta abbastanza». Ma valse la pena quel Sanremo senza esibirsi, perché di una minorenne all’una di notte non poterono che trasmettere il filmato delle prove del pomeriggio? «Tante strade aperte non le ho viste, no. Dietro le quinte? Ho respirato emozione e paura di sbagliare; pure competizione, sì, ma non con l’aggressività che penso nasca per forza da format come Amici. Forse ero troppo piccola e spaventata per capire bene le falsità di Sanremo. Ma non sono Cappuccetto rosso, e ne vidi di persone sgradevoli nella discografia».  Difatti poi è andata in Usa (e Brasile): risultati? «È più facile cantare e fare i live. Inserirsi nella discografia invece è difficile come qui. Però ho scritto, sperimentato stili, fatto concerti di standard jazz e inciso varie cose per un Cd che sto chiudendo, tutto registrato dal vivo e molto top secret… L’unica cosa che posso dirle è che, stante la mia esperienza, ho scelto di produrmi da sola». In compenso laggiù fa anche la modella, oggi… «Hanno iniziato a seguirmi sul web per la musica, in verità. Poi da lì sono arrivate proposte di moda e sono finita pure sui manifesti di Times Square. Per un’altra attività che svolgo con cura e seguendo le mie convinzioni, quindi niente foto sexy. La timidezza non mi abbandona neppure in un altro mestiere». Ma come, in Emi non ha appreso quanto conti l’immagine e quanto sia decisivo apparire, per avere successo? «Continuo a non credere che ciò aiuti davvero la musica. Contano una voce particolare, un motivo che colpisce… Il resto è fumo negli occhi. E poi io non cercavo né cerco il successo, cerco la mia musica». Come vedono all’estero la canzone italiana di oggi? «Beh, piacciono il belcanto, la tradizione, il pop melodico… e noi copiamo male il rap e l’elettronica, per successi che rimangono tali solo in Italia. Le radio hanno influenzato troppo gli artisti, col concetto che solo ciò che è “radiofonico” vince». Che canzone italiana invece vincerebbe, per lei? «Non possiamo prescindere dall’eredità di gente come Lucio Dalla, Fabio Concato, Pino Daniele, Sergio Endrigo, Salvatore Di Giacomo e Libero Bovio (gli autori di faccenduole come Reginella o Era de maggio: li ha citati davvero, ndr). Poi adoro il Caetano Veloso che rilancia Amore fermati, uno dei miei brani preferiti del grande Fred Bongusto». Ma a una Jessica Vitelli del 2016 cosa consiglierebbe? “Fuga dei cervelli” o provarci con le nostre major? «Di viaggiare e curiosare all’estero, ovvio. Ma per poi provare anche a essere se stessa in Italia, lottare qui in fondo può dare più soddisfazione… ». (8, fine. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 10, il 14, il 24 e il 30 luglio e l’8, il 12 e il 18 agosto)