Agorà

Lo studioso statunitense. Bradatan: «La vera filosofia è vita vissuta»

Alessandro Zaccuri sabato 22 aprile 2017

Costica Bradatan

La casa editrice si chiama Carbonio e, se visitate Tempo di Libri in cerca di novità, questo è lo stand giusto per voi. Debutto recentissimo, con una proposta che comprende saggistica e reportage, letteratura e testimonianze personali. Spicca, tra i primi titoli, Morire per le idee di Costica Bradatan (traduzione di Olimpia Ellero, pagine 272, euro 18,50), una meditazione su quello che l’autore – docente alla Texas Tech University e alla University of Queensland, in Australia – definisce “martirio filosofico”. Dalla pensatrice neoplatonica Ipazia fino al ceco Jan Patocka, che fu maestro di Václav Havel e morì nel 1977 per le percosse della polizia comunista, il libro è un attraversamento di “vite pericolose” nelle quali viene a cadere ogni distinzione fra astrattezza del pensiero e concretezza dell’azione.

«Oggi gli studiosi di filosofia sono propensi a ritenere che queste siano sfere separate, destinate a non influenzarsi tra loro – spiega Bradatan, che oggi alle 11,30 dialogherà con i lettori nella sala Optima di Fiera Milano Rho –. Pensiero e vita seguirebbero regole differenti, improntate a logiche non sovrapponibili. In questo momento non ci si aspetta che uno specialista in filosofia cambi modo di vivere così da essere più coerente con le proprie tesi. Nel libro ho voluto mettere in discussione questo atteggiamento e, sulla scorta del filosofo francese Pierre Hadot, ho provato a dimostrare come per lungo tempo la filosofia occidentale abbia concepito se stessa come arte del vivere».

In che senso?

«In passato l’importanza e lo stesso significato di una teoria o di un’opera filosofica erano commisurati ai cambiamenti che ne derivavano per la vita delle persone. Era un processo che riguardava anzitutto il pensatore e si estendeva poi ai suoi ascoltatori o lettori. Socrate, Boezio, Montaigne, Schopenhauer e Nietzsche sono alcuni esempi di quanto nella filosofia occidentale fosse rilevante il metodo di vita, anzi: la pratica. In Oriente, del resto, questa prospettiva non è mai venuta meno. Pensi al caso del buddhismo, che indica al filosofo la strada dell’automodellamento e, quindi, della trasformazione di sé. E lo stesso potrebbe dirsi del confucianesimo e delle altre scuole di pensiero orientali».

Per morire da martire è necessario essere filosofo?

«Evidentemente no. E i casi di martirio filosofico, in fondo, non sono così numerosi. Di solito ai pensatori manca il coraggio fisico e morale per perseguire le loro idee fino in fondo, oppure si prendono precauzioni, si trova la maniera di nascondere l’autentico significato di idee che ritengono possano apparire pericolose. Spesso, molto più semplicemente, non c’è nessuno che prenda i filosofi abbastanza sul serio. Il martirio è più frequente nell’ambito della fede in un Dio personale, che conosce le traversie del credente e può ricompensarlo per le sue sofferenze. Siamo davanti a una motivazione molto forte, che induce a sacrificarsi per qualcosa di più grande dell’esistenza terrena».

Allora perché occuparsi del martirio filosofico?

«Perché, nella sua relativa rarità, presen- ta una casistica molto affascinante. Tommaso Moro, il cui martirio fu nel contempo filosofico e cristiano, è un’eccezione pressoché unica. I filosofi che scelgono di morire, di norma, non credono in un Dio pronto ad accoglierli. E questo, dal mio punto di vista, è davvero straordinario: sono persone che affrontano la prova, perdono tutto e non nutrono alcuna speranza in una ricompensa celeste. Offrono la propria vita senza ottenere nulla in cambio. Muoiono per restare coerenti con le idee che professano. Muoiono perché non possono fare altrimenti. È un gesto che ha in sé una bellezza tragica e disperata, alla quale bisognerebbe prestare maggior attenzione. Se si osservano queste scelte più da vicino, ci si accorge che i filosofi non muoiono mai “per niente”. Qualcosa lo ottengono sempre, ma si tratta di un’immortalità molto diversa da quella promessa dalla religione».

Nel libro lei si sofferma anche sul Settimo sigillo di Ingmar Bergman. Come mai?

«Ha presente la partita a scacchi attorno alla quale ruota il film? I critici, così come gli spettatori, tendono a pensare che si tratti di un espediente attraverso il quale il protagonista, il cavaliere Antonius Block, cerca di prendere tempo con la Morte, nel tentativo di riscattarsi con un’ultima impresa. In questo senso, salvare la vita agli altri personaggi sarebbe la sua occasione per redimersi. Ma siamo sicuri che li abbia salvati? La loro morte, in effetti, viene solo procrastinata. Questo ci obbliga a interrogarci su quale sia la vera “azione utile” di Antonius. La mia convinzione è che questa azione non sia nient’altro che la partita a scacchi, mediante la quale la Morte viene obbligata a obbedire e ascoltare, a restare in attesa e rispettare le regole del gioco. Il cavaliere rende umana la morte e, così facendo, riscopre la propria umanità. Quando muore è una persona diversa da quella che, solo il giorno prima, aveva incontrato la Morte sulla spiaggia. È una trasformazione che non può non colpire».

La performance, la narrazione, il pubblico: sono questi gli elementi del martirio filosofico?

«Sì, anche se la distinzione è più che altro funzionale all’analisi. In pratica non c’è soluzione di continuità, non si può stabilire dove la performance finisca e inizi il racconto. Per risultare efficace, la morte di un filosofo deve avvenire in pubblico o essere pubblicamente accessibile. Ma quella che chiamo “performance”, ossia la morte, è solo l’inizio del martirio filosofico. Occorre che qualcuno ne renda disponibile il racconto, seguendo convenzioni e rispettando tradizioni ben precise. La componente narrativa ha un’enorme importanza, perché un martire non esiste al di fuori del racconto. Il pubblico interviene come testimone della performance, come destinatario del racconto e, perfino a distanza di secoli, come soggetto in cui la memoria torna a risuonare. Si tratta di un ruolo non meno cruciale degli altri: gli spettatori partecipano al martirio attraverso l’odio e la violenza, la vergogna e il senso di colpa, la compassione e il rimorso. Una mescolanza di emozioni e sentimenti che rende il pubblico, a sua volta, un martire».

Vale anche per la Passione di Cristo?

«Molti mi domandano perché, in un libro sul martirio, non mi sia occupato di Gesù. Non è una mancanza di rispetto?, mi chiedono. Secondo me sarebbe stato irrispettoso il contrario. Dal punto di vista teologico Gesù Cristo è il Figlio di Dio e considerare la sua vita e la sua morte nella sola prospettiva del martirio comporterebbe una vistosa svalutazione. Morì di una morte brutale e umi-liante, non si discute, e la sua Passione ha fatto da modello per i martiri cristiani. Ma Gesù, in ogni caso, è molto più di un martire».