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Intervista. Bozzetto: «Così ho inventato lo spaghetti western»

Massimo Iondini sabato 3 ottobre 2015
L’epopea dei film western era agli sgoccioli. Al cinema John Ford, Anthony Mann, John Sturges, Raoul Walsh e tanti altri grandi registi avevano ormai regalato i massimi capolavori. Il western cercava altre strade, prima di cedere lo scettro. E da Hollywood, mezzo secolo fa, la strada portò in Italia. Nasceva lo spaghetti western. Con tanto di “giallo” sulla sua paternità. L’anagrafe darebbe ragione a Sergio Leone: nel 1964 il regista romano uscì con Per un pugno di dollari. Ma a Milano allo spaghetti western qualcuno aveva pensato prima di lui. Da più di un anno negli studi Bozzetto una dozzina di disegnatori, tra cui l’effervescente Guido Manuli, stava infatti lavorando giorno e notte a un altro innovativo film, West and Soda. «Io ero partito prima, ma sono arrivato dopo», ricorda divertito Bruno Bozzetto a cinquant’anni esatti dall’uscita nelle sale del suo pionieristico lavoro. Perché alla fine il suo spaghetti western arrivò secondo?«Perché disegnare migliaia di scene richiede più tempo che girarle dal vivo. Comunque fu una pura casualità e con Leone ne abbiamo parlato spesso. Nessuno dei due sapeva dell’altro. Semmai quell’episodio dimostra che nell’arte, ma non solo, alcune idee spesso arrivano a maturazione nello stesso momento perché figlie di un determinato clima». E nel cinema che clima si respirava in quei primi anni Sessanta?«C’era bisogno di uscire da certi cliché di genere. In quel periodo, per esempio, il western classico aveva ormai esaurito il suo ciclo e certi luoghi comuni avevano raggiunto il loro culmine. Lo si poteva affrontare da nuovi punti di vista e con diversi approcci, dall’ironico al parodistico. Così feci io, ma anche Leone ne realizzò una sorta di parodia, sfidando i tradizionali canoni stilistici e narrativi».E nacque lo spaghetti western... «Andò così. Io stavo già lavorando a West and Soda da un anno quando Sergio cominciò a girare Per un pugno di dollari. A me ci vollero due anni, lui fece prima. Ma si trattava di due prodotti diversi, il mio cartone animato, ideato con l’amico Attilio Giovannini, aveva di per sé un impatto più leggero. Era molto ironico, non era il classico cartone pensato per i bambini. Nessuno dei miei lavori, del resto, ha mai avuto un preciso target. Io ho sempre fatto animazione per tutti».Quando lei cominciò si era in piena era Disney e quei cartoni avevano un preciso pubblico.«Io sono sempre stato un fanatico del cartoon disneyano, a partire da Bambi. Però a ben vedere lo stesso Bambi, film ecologista ante litteram, non era propriamente per bambini. L’idea che il cartone animato sia un prodotto di per sé per bambini è sbagliata. Per la tv il discorso in parte cambia perché ormai ci sono i canali dedicati. In ogni caso pensare cartoni animati per chi va già a scuola è una limitazione: oggi i bambini sono molto svegli, ricevono un sacco di input, soprattutto visivi. Peccato volare basso».Comunque anche per un cartone animato ci sono diversi livelli di comprensione. «Per fortuna. Questo spiega il successo dei kolossal americani di Pixar e, in parte, di Dreamworks. Mi fa piacere che anche loro oggi ragionino come ragionavo io cinquant’anni fa. Certo, i bambini colgono magari di più la vivacità dei colori, le battute più semplici, certi movimenti dei personaggi, mentre l’adulto va oltre».Anche il botteghino pare dare ragione.«È vero. Gli incassi record, in questi giorni, di due film di animazione come Inside out e Minions dimostrano proprio che i cartoon devono essere pensati per tutti, figli e genitori. È la  ricetta vincente. Sta tramontando l’idea del cartoon per bambini buono per le feste di Natale. È così che il cinema diventa per tutta la famiglia, toccando magari temi forti come l’ecologia, l’amicizia, ecc. Si pensi alla profondità di Toy story, in cui i giocattoli temono di essere buttai via e annientati dai bambini. Oppure Up, con protagonista un anziano. I cartoon devono far riflettere. I miei lo facevano con la forza dell’ironia, quelli di oggi più con l’umorismo. Apprezzo la Pixar perché sa rischiare. Io l’ho sempre fatto, ma ho dovuto lavorare in totale autonomia altrimenti avrei avuto le mani legate».A che cosa si riferisce in particolare?«Per realizzare quello che avevo in mente, i produttori non si trovavano. Così mi sono autofinanziato grazie agli introiti degli spot pubblicitari che disegnavo per Carosello e altri. Chi produce non ama rischiare, meno che mai con film di animazione. Tentare strade nuove poi è improponibile a un produttore che ovviamente vuole fare cassetta. Meglio replicare un successo, ma così si uccide la creatività».Produttori a parte, non è che oggi la creatività dell’artista è un po’ limitata anche dall’elevatissimo tasso tecnologico?«Direi di no, anzi può essere vero il contrario: mezzi superiori possono stimolare una diversa creatività. Forse semmai c’è un po’ meno poesia ed è un po’ meno centrale la dimensione umana, individuale e sociale. Ma questo è un punto di vista molto personale, di uno che puntava tutto sulla caricatura: i tic, le manie, i modi di fare, certi rituali collettivi. Oggi prevale l’umorismo più che l’ironia». Secondo lei oggi un personaggio come il suo Signor Rossi avrebbe successo come ebbe allora? In Germania fu addirittura un cult...«Chissà, altri tempi. Ironizzare e caricaturare è stata comunque la chiave vincente. La usai fin dal mio primo corto, Tapum! La storia delle armi. Lì denunciavo, ironizzando, la stupidità dell’uomo che anziché elevarsi e fare cose buone e utili passa la maggior parte del tempo a combattersi e a distruggere. Sul tema delle armi ho poi fatto Cavallette e Rapsodeus. Perché film di cinquant’anni fa come West and Soda e Vip sono amati ancora oggi?«Perché sono pieni di trovate divertenti, di gag e di ironia. Si capisce che si è anzitutto divertito chi li ha realizzati. E al centro c’è l’uomo con tutte le sue contraddizioni. In Vip poi c’è anche un forte taglio sociale, con la presa in giro della pubblicità, del consumismo e della massificazione. Ironizza con cinquant’anni di anticipo sugli effetti perversi di una certa globalizzazione».