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Intervista. Ezio Bosso: «Scavo in cerca dell’anima nella musica»

Angela Calvini mercoledì 14 novembre 2018

Ezio Bosso, il nuovo lavoro è “Roots” (A tale sonata) (foto di Guido Harari)

«Come faccio a dire che non sono fortunato?». Ezio Bosso osserva con un sorriso la bellezza della facciata del Duomo di Torino e dell’appena restaurata Cappella del Guarini illuminate, dal suo attico in un antico palazzo torinese. «Questo palazzo mi è sempre piaciuto fin da bambino, lo guardavo sempre» aggiunge e par di vedere il piccolo Ezio, naso all’insù con la testa piena di sogni. Come quando andò a comprare di nascosto dai suoi, una onesta e solida famiglia di lavoratori nella Torino operaia anni 70, lo spartito della Sonata n.14, la celeberrima “al chiaro di luna”, di Beethoven, che compare nel nuovo disco appena pubblicato per Sony Classical, Roots (A tale sonata), Radici (Una sonata racconto). Diverse partiture sono sparse sull’ampio tavolo di legno grezzo. Aperta, davanti al maestro Bosso, sta la Sesta sinfonia di Cajkovskij, la Patetica. «La musica è la mia compagna di vita, continuo a studiare da 40 anni e continuo a stupirmi, a rinnovare quell’amore, a sentirmi piccolo, parte di una cosa grande – aggiunge –. Quello che lascio come compositore si saprà quando non ci sarò più, non adesso. Ora ha importanza solo fare bene» sussurra mentre accarezza le pagine con le dita sottili, inguainate da mezzi guanti rossi di pelle. Il nuovo disco sarà l’ultimo a contenere sue composizioni inedite ed esecuzioni al pianoforte, anche dal vivo, poiché, ammette sincero, la fatica si fa sentire e lui è un perfezionista. «Se non posso evolvermi, preferisco non suonarlo. Ed è meglio così. Perché ritorno a fare quello che ho sempre fatto. Il direttore d’orchestra».

Bosso è da anni un compositore e direttore di fama internazionale, ma in Italia in qualche modo sente di pagare lo scotto del successo della sua presenza a Sanremo con troppe conseguenti banalizzazioni dei media su un musicista che si è sempre definito «un pianista all’occorrenza». Anche se è consapevole, come ha sempre ripetuto, che la sua fragilità anche fisica è un punto di forza e che questo messaggio carico di positività gli ha guadagnato l’affetto di tante persone. «Però vorrei ecclissarmi e che non si parlasse di me, ma solo della musica. Non voglio mettermi in mostra, ma essere solo un tramite». Ed ecco che il personalissimo nuovo album diventa importante «per confrontare se stessi, per non avere fretta, la musica deve servire a fare riflettere» aggiunge.

Un capitolo musicale cui Bosso sta lavorando da cinque anni, incentrato sulla ricerca delle radici. Un viaggio in cui l’ascoltatore si immedesima sin da subito, percependo anche la propria profondità sulle note del piano suonato da Bosso, affiancato dal violoncellista Relja Lukic, primo violoncello dell’Orchestra del Teatro Regio di Torino. Il primo cd omaggia i maestri del compositore torinese, a partire da Arvo Pärt che apre il disco con Fratres , un brano composto nel 1977 in un monastero. «Poi, com’è ovvio, Bach: le radici del credere perché la fede è una forma di radice conquistata. La fede di Bach, che è fede assoluta nella musica e nel cristianesimo, si sente quintessenziata nei corali Ich ruf zu dir, Herr Jesu Christ e Wenn wir in höchsten Nöten sein ». E si sente anche nel brano di Olivier Messiaen scritto in un campo di prigionia nazista nel 1940, Louange à l’Éternité de Jésus che è parte del Quatuor pour la fin su temps. «La musica ha potere di purificare tutti, è trascendenza – aggiunge – Trascende anche il dolore: ne abbiamo bisogno, non è un nostro nemico, ma un amico un po’ antipatico che va consolato. La musica è trasfigurazione come ci insegna il Cristo, la trasfigurazione è andare oltre se stessi, non è diventare altro. Le radici cristiane? In qualche modo sono inevitabili, per un uomo italiano è anche sciocco sostenere di non averle».

Tutte radici che ritornano nel secondo cd, che contiene la nuova opera di Bosso la Sonata The Roots (A tale sonata) pianoforte e violoncello. «Prima o poi c’è un momento nella vita in cui iniziamo a riflettere intensamente sulle nostre radici. Spesso coincide con la perdita di una radice per noi essenziale, ad esempio la scomparsa di un genitore, come è successo a me. Quel padre così simpatico, ma da cui sono stato così distante... Ma è capitato all’interno di un percorso già avviato e mi sono confrontato col dolore di altri, non solo il mio. La morte è solo la morte, e va rispettata. Io ho un rapporto con la morte come parte della vita». La Sonata per pianoforte e violoncello in quattro movimenti, apre con un adagio iniziale, come una marcia funebre Very slow, like a funeral march che si evolve, fra ricordo e ribellione, sino al presto nel finale, «una liberazione dove si scopre la vera radice: essere connessi l’uno con l’altro».

Quello a cui Bosso dice non rinuncerà mai, anche se le sue apparizioni si sono diradate, è la divulgazione musicale. «Quando vedo le persone entusiaste per Beethoven, per Cajkovskij e Dvorák sono l’uomo più felice del mondo. Non rinuncerò mai al valore sociale della musica, a quel collante sociale coadiuvante a una società migliore» ci spiega, pronto a riprendere la bacchetta il 17 novembre prossimo al Teatro Regio di Torino per eseguire la sua Oceans e Dvorák. Il 24 novembre dirigerà poi al Teatro Petruzzelli un concerto a sostegno di un progetto per dotare le scuole di strumenti musicali mentre il 20 gennaio a Bologna dirigerà un’orchestra formata da 50 musicisti fra i migliori di tutta Europa nel concerto Grazie Claudio! a 5 anni dalla morte di Abbado e a favore dell’Associazione Mozart 14, dove verrà eseguito Pierino e il lupo con l’attore e amico Silvio Orlando. Un segnale anche all’Europa, dopo l’appello all’unità lanciato da Bosso al Parlamento europeo quest’estate. Intanto, tornerebbe in tv solo per un progetto importante. «Sogno un programma divulgativo che andasse in prima serata su una delle principali reti Rai. Da una bella sinfonia vorrei raccontare una bella storia che passa per l’utopia, per la sofferenza, per il credo, per la speranza. Per raccontare anche noi stessi».