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BOOKSHOP. Quando l’arte ispira il commercio

Alessandro Beltrami lunedì 16 gennaio 2012
Foulard, gomme, ciondoli, lampade, cavalli a dondolo. L’offerta di uno dei tanti bazar cinesi che popolano le nostre città? No, è il (sommario) panorama degli scaffali di un bookshop museale. Il "negozio dei libri", letteralmente. E, ovviamente, le pubblicazioni la fanno da padrone. Ma non stupisce che un guru del marketing come Philip Kotler usi la parola "emporio". Fino a 15 anni fa in Italia erano una rarità, oggi sono la tappa obbligata nel percorso di musei e mostre. Un lunapark del gusto, tra guide, raffinate edizioni d’arte e merchandising, che alterna il design di grido al kitsch. Ogni museo cerca una propria identità ma non mancano prodotti che rimbalzano di negozio in negozio perpetuando luoghi comuni culturali, versione up-to-date del trittico "pizza spaghetti mandolino". Ecco allora le tazze con il volto di Leonardo, tappetini da mouse con Botticelli. Sulle borse c’è ormai di tutto. A Brera si sono viste palle di natale con lo Sposalizio della Vergine di Raffaello. E a Venezia non si fa mancare mai il vetro. Ben fornite le sezioni per i bambini: libri e giochi (anche firmati da artisti e designer), cartoleria e arredamento. La quota di merchandising venduto rispetto all’editoria di norma si attesta attorno al 30%, ma cresce dove il pubblico è meno specializzato. Al Colosseo tocca il 48%: qui di legionari, temperini-catapulte e gomme-imperatore se ne vendono a migliaia. Stessa percentuale per la mostra di Dalì a Milano, dove pochi mesi fa spopolarono le calamite con i baffi dell’estroso pittore. Alla mostra milanese sul Giappone grande successo per carte di riso, kit per la cerimonia del tè e kimoni. D’altronde il merchandising è una categoria che va dal magnete con il David a una lampada firmata da Paladino (costo 2 mila euro). Alcuni musei, specie di arte contemporanea, offrono anche multipli e grafiche d’autore. «Il consumatore post industriale più che prodotti compra esperienze – spiega Loretta Battaglia, docente di Marketing della cultura alla Cattolica di Milano –. Una richiesta con cui i musei sono in sintonia. Acquistare un gadget è come portare via un pezzo di esperienza». Ma senza la legge Ronchey tutto questo non sarebbe possibile. È la normativa che nel 1993 aprì le porte dei musei statali ai privati, ai quali furono affidati i "servizi aggiuntivi": dalle librerie alle audioguide, dalla prenotazione alla ristorazione. «Nei fatti ha cambiato l’essenza – prosegue Battaglia –. La Ronchey ha consentito ai musei di entrare sul mercato e fornire servizi richiesti dal pubblico stesso ma che lo Stato non era in grado di dare. In questo modo i musei sono usciti dalla logica "conserva e guarda" e si sono trasformati in centri di aggregazione qualificati, luoghi dove i diversi pubblici, dai bambini agli specialisti, spendono il tempo libero in modo costruttivo». Il meccanismo è quello della concessione, che prevede un canone annuo e quote (royalties) sui singoli servizi. Un sistema gestito dalle singole sovrintendenze attraverso gare specifiche, con parametri di volta in volta differenti. «Prima della legge Ronchey c’era il vuoto» spiega Rosaria Mencarelli della Direzione generale per la valorizzazione del patrimonio culturale del ministero dei Beni e attività culturali. «Sulla base di quella legge, poi integrata dal Codice Urbani, si è creato un mondo imprenditoriale». E un notevole giro d’affari: negli istituti dello Stato dai 19.512.382 euro di incassi lordi dei servizi aggiuntivi del 1999 si è passati ai 46.209.838 del 2010. Un bilancio in cui le librerie hanno la voce più importante: nel 2010, infatti, 19.931.236 euro di incassi sono rubricati alla voce bookshop. Il 19% dei quali è andato alle sovrintendenze: 3.930.771 euro. Ma il picco è stato raggiunto nel 2006, quando le librerie fatturarono 22.596.145 euro lordi (su oltre 44 milioni totali), di cui 4.417.859 in quota sovrintendenza. «In 20 anni c’è stato un netto beneficio per tutte le parti: siti, turisti, imprese – prosegue Mencarelli –. Ma è un dato di fatto che in Italia oggi il numero di imprese coinvolte è circoscritto, una sorta di oligopolio». Rosanna Cappelli è direttore generale Arte, mostre e musei di Electa, una delle principali concessionarie insieme a Skira e Silvana. E racconta che all’inizio la situazione non era così rosea: «La metà degli anni ’90 fu un momento di euforia per i musei e insieme di difficoltà perché gli istituti non erano pronti a liberalizzare. Hanno letto questi servizi come appendici spesso fastidiose delle attività culturali. I bookshop furono piazzati in spazi improvvisati, scomodi e privi dei servizi necessari. Nelle prime librerie capitava che i soprintendenti passassero tra gli scaffali per eliminare i libri che non ritenevano all’altezza». Negli anni molto è migliorato, ma non tutto: «Oggi i musei hanno bookshop in luoghi confortevoli e talvolta firmati da grandi architetti; ma nelle aree archeologiche spesso siamo rimasti in situazioni precarie. Il paradosso è che queste hanno molti più visitatori dei musei».
Le piazze migliori sono i musei di arte moderna e contemporanea: «Qui, dove il target del pubblico è più alto per cultura e capacità di spesa, funzionano bene libri e prodotti anche di alto costo». Il rapporto tra direzione e libreria è, secondo Rosanna Cappelli, molto stretto: «L’imprenditore è autonomo nella scelta dei singoli prodotti ma la linea generale è concordata. Anche se gli istituti ambirebbero a librerie iperspecializzate, pure in assenza dei requisiti di pubblico». Il vero limite della Ronchey è che funziona solo per i big. Ci si basò sui modelli allora disponibili: Louvre e Metropolitan. Mostri che macinavano decine e decine di miliardi di vecchie lire (e oggi di milioni di euro). Si pensò che li potessero fare anche i nostri musei. Tutti. «Il ministero ha pensato che il Colosseo e il piccolo museo della Calabria funzionassero allo stesso modo» sospira Cappelli. Ed è così che sui 420 siti statali oggi solo 84 hanno un bookshop (erano 101 nel 2002). E anche i più grandi quelle cifre manco le sfiorano. «Il sistema della concessione si basa sulla capacità dei siti di fare reddito – spiega Rosaria Mencarelli – Per questo ci vuole una massa critica sotto la quale si va in perdita». Ergo: funziona davvero solo per realtà come la Roma archeologica o il Polo museale fiorentino. Il Colosseo nel 2010 ha incassato 2.632.939 euro, il Museo Egizio di Torino 1.470.577, il Cenacolo vinciano 828.632, gli scavi pompeiani 549.826 (pochini, a fronte di 3 milioni di visitatori), Brera 518.486. Gli Uffizi hanno toccato quota 4.595.894 euro, le Gallerie fiorentine dell’Accademia 1.806.293: in due un terzo del totale nazionale. Gli operatori lamentano che anche in questi casi il gioco non è sempre profittevole: «Non è un caso – dice Cappelli – che non partecipino librai veri ma case editrici: le royalties sono troppo alte. Al Colosseo, ad esempio, la concessione prevede il 25% di quota sovrintendenza più il canone annuo. Sono cifre legate alle vecchie stime del ministero. E poi ci sono altri fattori. A Napoli, ad esempio, dove Electa gestisce librerie di musei come l’Archeologico e Capodimonte, la crisi della spazzatura ha dimezzato i visitatori. Impossibile sostenere quel sistema di bookshop». Ma se i guadagni sono davvero risicati, perché investire? «Al di là della promozione del nostro prodotto, il rapporto di concessione con istituti culturali ci ha consentito di avviare nuovi settori nel campo delle mostre e della valorizzazione del patrimonio. Prima della Ronchey sarebbe stato impossibile». Per Electa se il fatturato annuale nei bookshop è di 10 milioni di euro, l’intero settore beni culturali tocca i 24. Di tutto questo le realtà sotto i 50 mila visitatori, che costituiscono i tre quarti del tessuto museale italiano, non hanno neppure le briciole. Il patrimonio diffuso sarà anche un pregio dell’Italia ma non attrae capitale. E nel taglio dei fondi l’incubo chiusura si fa realtà. «Il problema è grande – spiega Mencarelli – Per questo stiamo studiando modelli gestionali a partire dalle reti territoriali fino a soluzioni che consentano il coinvolgimento del privato in termini più incisivi e integrati rispetto ai semplici servizi in concessione, fatti salvi i compiti che costituzionalmente sono dello Stato. Il patrimonio "minore" è il nostro obiettivo principale. La vera sfida da vincere per il futuro».