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Novecento. Le poesie dal carcere di Bonhoeffer: inni a Dio e resistenza in versi

Marino Freschi domenica 3 settembre 2023

Dietrich Bonhoeffer

Teologo, ma anche pastore e militante antinazista della “emigrazione interna”, Dietrich Bonhoeffer, nato nel 1906 a Breslavia, capitale storica della Slesia (l’attuale Wroclav polacca), venne impiccato per ordine personale di Hitler il 9 aprile 1945 nel carcere duro di Flossenbürg, pochi giorni prima del crollo del Terzo Reich. Bonhoeffer è uno dei rari intellettuali tedeschi che riscattano, con la loro opera e con la loro azione, l’intera cultura assoggettata alla devastazione nazista sia materiale, che morale e spirituale.

Bonhoeffer proveniva da una famiglia dell’alta borghesia, che coltivava importanti contatti con l’intellighenzia. Rilke dedicò il suo stupendo Requiem. Per il Conte Wolf von Kalckreuth, poeta precoce, suicidatosi nel 1906, non ancora ventenne, cugino di Bonhoeffer, proprio nell’anno della sua nascita. La vicinanza della morte percorre l’esistenza di Bonhoeffer. Compiuti studi brillanti, scelse di dedicarsi alla teologia intesa come esperienza intellettuale e come servizio alla comunità cristiana, con soggiorni pastorali negli Usa, a Londra e con il ritorno in Germania in anni in cui il regime hitleriano cominciava a esercitare la sua pressione totalitaria, condizionando pesantemente anche la chiesa evangelica, con l’accettazione del vergognoso “paragrafo ariano”. Ai pastori consenzienti con il Reich, si oppose la Chiesa Confessante, sorta nel grande incontro di Barmen di fine marzo 1934, con la riproposizione di Lutero di Solus Christus: vi è un solo Führer, una sola guida ed è Cristo, cui aderì da protagonista Bonhoeffer.

La convivenza con le autorità naziste si fece sempre più turbolenta, costringendolo all’inizio dell’estate del 1939 a emigrare negli Usa. Ma dopo un mese e mezzo con lo scoppio della guerra, Dietrich sentì che non si poteva sottrarre al destino del suo popolo e rientrò in Germania, sapendo che sarebbe stata la sua fine. E così fu: Bonhoeffer aderì alla congiura dei servizi segreti coordinati dall’Ammiraglio Canaris. Nell’aprile del 1943 venne arrestato e imprigionato a Berlino-Tegel.

Le condizioni del carcere erano durissime: Bonhoeffer pensò al suicidio anche per resistere agli interrogatori del giudice Manfred Roeder – il «cane sanguinario di Hitler», che aveva già mandato a morte più di 45 membri della “Orchestra rossa”. L’allontanamento di Roeder permise a Bonhoeffer un periodo di relativa calma, consentendogli di scrivere le famose lettere ai genitori e alla giovane fidanzata, Maria von Wedemeyer. A lei e all’amico fraterno Bethge dedicò quelle più intense, che si trasformarono, spontaneamente, in poesie. In tutto furono dieci poesie, scritte quando la distretta era profonda, che, insieme agli altri testi, vennero pubblicate nel volume Resistenza e resa.

La situazione precipitò quando la Gestapo, scoperto il suo coinvolgimento nel fallito attentato a Hitler del 20 luglio, l’8 ottobre 1944, lo trasportò nel famigerato carcere alla Prinz-Albrecht-Strasse, successivamente nel lager di Buchenwald e infine a Flossenbürg.

Questo suo “canzoniere”, ora noto col semplice e definitivo titolo Poesie, viene ripubblicato dalla casa editrice Marietti1820, a cura di Alberto Melloni, che ha arricchito le sue traduzioni con una preziosa prefazione. Poesie che sono pagine di diario e insieme lettere senza avere la certezza della consegna, poesie di un teologo, di un combattente, di un predicatore e la sua lingua è quella della tradizione patristica, della Bibbia luterana, dell’innologia di Lutero, dei salmi e della stupenda stagione lirica religiosa seicentesca di Paul Gerhard, poeta straordinariamente in sintonia con le armonie della nuova spiritualità evangelica, diretta e tragica, pervasa dalla musicalità bachiana e dalla mistica ecumenica di Jacob Böhme e Angelus Silesius.

Certo, Bonhoeffer è anche un intellettuale che vive le contraddizioni e le controversie del suo tempo, come prova il duro e ricco confronto con Karl Barth. Dunque non poeta in senso tradizionale, ma pur tuttavia autentico poeta che infonde vita alla parola nella massima tragedia epocale tedesca, talvolta ancora con speranza: «Fratelli, finché dopo la lunga notte / non spunti il nostro giorno, /noi resistiamo!». Talvolta rassegnato come solo un cristiano che sente di essere nella verità sa dire «Morte, / Vieni, ora, festa suprema / sulla via per l’eterna libertà, / morte, rompi le gravose / catene e le mura / al nostro effimero corpo / e alla nostra anima accecata, / perché finalmente vediamo / ciò che qui non c’è dato di vedere. / Libertà, a lungo ti cercammo / in disciplina, azione e sofferenza. / Ora morendo, proprio te riconosciamo / nel volto di Dio». Quel volto del Deus absconditus, quel Dio che lo inquietava, lo turbava, fino a elevarlo all’audace, paradossale visione di un cristianesimo senza religione, intesa come «realtà metafisica», umanamente pensata, ma spiritualmente inesperibile. Dietrich è tutto nella ricerca: «Ciò che m’intriga è la domanda cos’è oggi per noi il cristianesimo, o perfino Cristo».

Lo apprese negli ultimi giorni del suo calvario terreno nel carcere di Flossenbürg, dove era stato trasportato insieme agli altri congiurati superstiti. L’immensa solitudine lo risolleva fino alla comprensione di quella struggente, commovente nostalgia che pervade la sua umanissima poesia Passato, in cui si avvicina alla rivelazione del mistero dell’inspiegabile compresenza delle esperienze: «Tendo le mani / e prego - / e sperimento il nuovo: / il passato ritorna / come il pezzo più vivente della vita / per il grazie e per il pentimento. / Cogli nel passato perdono e bontà di Dio / prega che Dio ti custodisca oggi e domani».

Il confronto con il passato che non si perde è il risultato maturo della solitudine in carcere, quella che l’illumina fino all’ultima “cantata” Da forze buone – la sua poesia più famosa, musicata per più di 70 volte (rilevamento del 2017)-, che costituisce un elemento stabile del canone luterano, e in generale evangelico e che è entrato anche a far parte del Gotteslob, dell’innario cattolicodi lingua tedesca. La composizione musicale più popolare si deve a Siegfried Fietz nel 1970. Il testo in sé ha una sua forza trascinante, sorretto anche dall’occasione di essere stato composto per la fidanzata e per i genitori e fratelli alla vigilia di Natale 1944, ed è una delle ultime testimonianza scritte che ci sono pervenute, salvate dalla distruzione degli scritti ad opera dei nazisti. Il canto, strutturato in sette quartine con rime, è un inno di speranza e di riconciliazione, che possiamo accogliere come il suo estremo saluto e testamento spirituale. «Da forze buone, miracolosamente accolti / attendiamo confidenti qualunque cosa accada. / Dio è con noi alla sera e al mattino, / e stanne certa, in ogni nuovo giorno». Così il “non poeta” Dietrich Bonhoeffer assurge nella schiera dei più intensi poeti del Novecento.

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