Agorà

La provocazione. Augé: la religione nel pallone

Giacomo Gambassi martedì 24 maggio 2016
E LA COPPA È IL SANTO GRAAL... La Coppa del mondo di calcio «mima il santo Graal ambìto da tutti» e, «salvo il rispetto», il pallone «funziona come una specie di ostia con la quale tutti entrano in comunione». Con il suo stile provocatorio, il brasiliano Leonardo Boff (uno dei «padri» della teologia della liberazione) racconta il calcio come «religione laica universale» in uno scritto apparso nel suo blog alla vigilia dei Mondiali 2014 in Brasile. Il teologo – le cui riflessioni ambientali sono citate più volte nell’enciclica di Francesco Laudato si’ – spiega che «nel calcio come nella religione esistono gli 11 apostoli (Giuda non conta), inviati per rappresentare il Paese». Ma i paragoni temerari vanno oltre. «Esiste un papa, presidente della Fifa, dotato di poteri quasi infallibili. Si presenta circondato da cardinali che costituiscono la commissione tecnica responsabile dell’evento. Seguono gli arcivescovi che sono i coordinatori nazionali della Coppa». I sacerdoti sono gli «allenatori, portatori di speciale potere sacramentale di confermare o togliere i giocatori». Inoltre per Boff esistono «ordini e congregazioni religiose» ovvero il «tifo organizzato: questi hanno i loro riti, i loro canti, la loro etica». Lo stadio come una cattedrale? Qualcuno potrebbe arricciare il naso di fronte a un parallelismo per certi versi ardito. Eppure già san Paolo vedeva una sorta di affinità elettiva fra gare e sacro, tanto da fare di una competizione il termine di paragone per illustrare un superiore ideale etico e ascetico. Nella prima Lettera ai Corinzi scriveva: «Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile». Allora apparirà meno imprudente l’approccio dell’antropologo francese Marc Augé che definisce il calcio «una nuova religione». In realtà lo studioso aggiunge un punto interrogativo. Perché – sostiene – intorno a un campo da gioco «forse l’Occidente sta anticipando una religione e ancora non lo sa». Lo scrive nel libro Football (Edb, pp. 48, euro 6), in cui propone una lettura del pallone «come fenomeno religioso».o stadio come una cattedrale? Qualcuno potrebbe arricciare il naso di fronte a un parallelismo per certi versi ardito. Eppure già san Paolo vedeva una sorta di affinità elettiva fra gare e sacro, tanto da fare di una competizione il termine di paragone per illustrare un superiore ideale etico e ascetico. Nella prima Lettera ai Corinzi scriveva: «Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile». Allora apparirà meno imprudente l’approccio dell’antropologo francese Marc Augé che definisce il calcio «una nuova religione». In realtà lo studioso aggiunge un punto interrogativo. Perché – sostiene – intorno a un campo da gioco «forse l’Occidente sta anticipando una religione e ancora non lo sa». Lo scrive nel libro Football (Edb, pp. 48, euro 6), in cui propone una lettura del pallone «come fenomeno religioso».Il pamphlet esce in questi giorni in Italia ed è figlio di quell’attenzione all’«antropologia del quotidiano» metropolitano che Augé ha messo al centro delle sue ricerche dopo aver guardato, con molteplici indagini etnografiche, all’Africa. L’ex direttore dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales a Parigi descrive una partita alla stregua di un rito «celebrato in un luogo posto al centro della scena da ventitré officianti e qualche comparsa, davanti a una folla di fedeli di importanza variabile, ma che può raggiungere la cifra di cinquantamila individui». Non solo. Come una Messa trasmessa in diretta televisiva, esso «è seguito con la stessa fede da milioni di praticanti a casa, talmente a conoscenza dei dettagli della liturgia che, apparentemente senza scambiarsi una parola, si alzano, gridano, strepitano o si rimettono a sedere allo stesso ritmo della folla riunita allo stadio».La similitudine fra calcio e credo non è nuova. Augé cita il sociologo e storico delle religioni di fine Ottocento, Émile Durkheim, ma anche il collega inglese Robert W. Coles che nel 1975 aveva proposto un’analisi sul Football come una religione surrogata? Tuttavia lo studioso transalpino accusa le scienze sociali di non aver affrontato in maniera sistematica questo tema e di nutrire una singolare ritrosia rispetto agli imponenti rituali moderni. Certo, l’approdo di Augé è amaro: il pallone elevato a fede è «caratteristico di un’epoca e di una società» in cui si ritiene che «questi frammenti di tempo bastino alla nostra felicità». Per comprendere il punto di arrivo, c’è bisogno di affermare – come fa lui – che il «rapporto fra sport di massa e religione non ha niente di metaforico». Oggi, nota l’antropologo, in Occidente «il senso dell’esistenza si costruisce empiricamente». Di fatto siamo di fronte ad «attività che sono sufficienti a dare senso alla vita, dal momento che danno forma sensibile e sociale alle aspettative individuali che contribuiscono a creare».Ne sono un esempio i big match di campionato o di coppa. Così «gli stadi diventano un luogo di senso, di controsenso e di non-senso, un simbolo di speranza, di errore o di orrore». Impianti che comunque non rientrano nella categoria dei “nonluoghi”, secondo la teoria che ha reso celebre Augé e che vede in autogrill, centri commerciali o alberghi – tanto per indicare qualche caso – spazi estranianti e dominati dall’assenza di storia, identità, relazioni. Fra tribune e gradinate, invece, si compiono «grandi rituali, gesti ripetitivi che sono anche delle iniziazioni». E se da ciascun rituale ci si aspetta che avvenga qualcosa – che la pioggia cada, che un’epidemia cessi, che i raccolti siano buoni –, «nel rituale sportivo l’attesa si colma con la celebrazione stessa: alla fine del tempo regolamentare le sorti saranno decise ma il futuro sarà esistito, frammento di tempo puro, grazia proustiana a uso popolare». Che il calcio sia una liturgia laica lo mostrano anche i cori che, osserva l’esperto, «si sentono generalmente in alternanza e non si coprono quasi per niente», come può accadere ascoltando una comunità monastica che canta il Salterio durante la Liturgia delle ore. E Augé ricorda l’inno di una squadra francese costruito sull’aria dell’Ave Maria: «Allez, allez, allez, Saint-Étienne!». Inoltre, secondo l’antropologo, possono nutrire lo stesso fascino e commuovere nell’identica maniera «l’odore dell’incenso, l’attacco degli organi monumentali dopo l’ultimo Vangelo, il verde sfavillante del prato in notturna o il rumore che rimbomba sotto la volta del Parc des Princes», lo storico stadio di Parigi.Di fronte a un incontro all’Olimpico o a San Siro viene da chiedersi se non si perpetui l’idea marxiana dell’«oppio dei popoli». Lo fa anche Augé. E ammette che una partita va ritenuta nel XXI secolo una «fonte di spettacolo», ma proprio la dimensione scenografica e maestosa dello sport può essere giudicata «fondamento della sua natura religiosa». Che conquista tutti, senza distinzioni di età e censo, come si comprende entrando in mezzo al pubblico fra gli spalti.Allora la mente va a papa Francesco che più volte è ricorso all’icona del calcio per raccontare la fede. Nell’udienza generale del 13 giugno 2013 aveva spiegato: «Se in uno stadio, in una notte buia, una persona accende una luce, si intravvede appena, ma se gli oltre settantamila spettatori accendono ciascuno la propria luce, lo stadio si illumina. Facciamo che la nostra vita sia una luce di Cristo». E ai giovani aveva detto nel 2013 durante la Gmg in Brasile: «Che cosa fa un giocatore quando è convocato a far parte di una squadra? Deve allenarsi, e molto! Così è la nostra vita di discepoli del Signore». Parole di un Pontefice “sportivo” che ha portato fino in Vaticano l’amore per la maglia del San Lorenzo, club della sua Buenos Aires.