Agorà

La canzone si racconta/2 . Bobby Solo, lacrime e rock

Andrea Pedrinelli giovedì 14 luglio 2016
Non deve essere stato facile, passare nel giro di pochi anni da un tour europeo figlio dei due milioni e mezzo di copie vendute nella sola Francia da Una lacrima sul viso, tour con tanto di concerto all’Olympia affiancato da Cliff Richard, a «show nei locali con cinque persone a sera». Però Roberto Satti alias Bobby Solo, classe 1945, non soltanto è ancora sulle ribalte con un album nuovo ( Meravigliosa vita, quattro hit e nove inediti freschi e accattivanti con tre testi scritti apposta per lui da Mogol): ma ha superato la crisi di cui sopra, databile al periodo 1972-1980, pure confermandosi nel tempo personaggio storico nella vicenda della canzone italiana. Dal primo rock portato nello stivale proprio da artisti come lui, Celentano, il primo Di Capri e «il grande guerriero» – così lo definisce – Little Tony, ai fasti di quando Sanremo era Sanremo e lui lo vinceva due volte ( Se piangi se ridi, 1965; Zingara, 1969) dopo averlo già vinto nei giudizi del mercato con Una lacrima sul viso nel ’64, appunto: “lacrima” che fu il primo playback sanremese causa «paralisi emotiva delle corde vocali» dell’artista. Perché Bobby Solo (ci crediate o meno) esordiva davanti a un pubblico proprio sulla ribalta festivaliera di 52 anni orsono. E poi Bobby Solo, oltre a film, doppiaggi, una ventina abbondante di lp (compresi quelli dedicati a West, Natale, Napoli, Cash ed Elvis) e una quindicina di hit da classifica ( Non c’è più niente da fare, Siesta, Gelosia, Domenica d’agosto oltre le già citate), ha fatto la storia della canzone italiana anche da… fonico. Perché gli artisti di certe generazioni sapevano davvero molto del loro mestiere, e la vita di Bobby Solo, oltre che “meravigliosa”, sicuramente potrebbe essere definita pure avventurosa. Partiamo dal debutto. Niente locali, night, balere, club… Il Sanremo 1964 fu la prima volta, vero? «Vero. Avevo formato delle band da ragazzino, con mio padre che mi voleva medico o avvocato e mia madre che sognava una vocazione da sacerdote; e pensi che a Milano, dove mio padre ci portò presto per lavoro da Roma, il mio batterista era Franz Di Cioccio… Però avevo suonato prima del Festival solo in due licei: Longone e Beccaria, quando mi ero vergognato della mia chitarrina in plexiglass davanti a Santercole che sfoggiava già il Binson Echorec di Bonfiglio Bini, effetto finito poi in lp di Shadows e Pink Floyd. Alla fine debuttai davvero, 19enne, a Sanremo». Quindi nessuna gavetta? «L’ho fatta alla rovescia. Con una canzone composta in tre minuti nella cucina di via Frua mentre mamma preparava il pranzo, ho venduto undici milioni di dischi, sembrando sprezzante ai giornalisti mentre tremavo, avevo paura; poi però ho avuto momenti durissimi. Nel ’76 alla Intersong un usciere mi disse “che fa qui? La sua carriera è finita” e per poco non andai sotto un autobus, camminavo piangendo. Ma solo nelle difficoltà impari: pure la fortuna che hai». Cos’era Sanremo per un adolescente di metà anni ’60? «Da debuttante fu troppo. Vidi Frankie Laine, Paul Anka, Frankie Avalon… e non riuscii a cantare. Ma anche da appassionato era tutto. Nilla Pizzi, Johnny Dorelli, Renato Rascel entravano in casa come dei». C’è tornato negli anni ’80 e nel 2003: è cambiato? «Eccome. È uno spettacolo tv che non ti fa vendere dischi né produrre tournée. Sa quanto vendette Fabrizio Ferretti, “pecora nera” dell’edizione 1964? 375mila singoli. Oggi chi li vende? Oggi che i suoni sono piatti e la musica non è terapia ma persuasione occulta: sui network radio non passano mai non dico Modugno, ma neppure Eric Clapton o Enrico Ruggeri…» Il rock invece che cosa fu per la sua generazione? «Ho malinconia a pensarci. Fu un fenomeno sociale: Elvis abbatté barriere razziste, in America».  Celentano o Gianco facevano rock diverso dal suo?  «Facevano capolavori, visto che partivano dalla lingua italiana. Poi in Usa vengono dal blues, che noi non abbiamo, siamo latini. E Ventiquattromila baci era geniale perché ha progressioni latine. Celentano, Gianco e anche Tony hanno aperto la via». A chi? Vasco Rossi e Ligabue fanno rock italiano? «Ligabue per me è un poeta: e certo che fanno rock, anche se partendo da un rock più recente di Elvis. Se cantassero in inglese sfonderebbero anche negli Usa». Intanto lei, nel 1976, finì a fare il fonico… «Non c’era nessuno ai concerti, aprii una sala con mixer avanzatissimi e lì nacquero album decisivi di Alan Sorrenti, Patty Pravo, Umberto Tozzi. Ma anche di Emerson Lake and Palmer e Napoli Centrale. James Senese addirittura volle me come fonico per il loro capolavoro Mattanza, cercava suoni da musicista». Perché secondo lei nel ’64 una canzone restava per mesi e oggi dura poche settimane, se va bene? «Solo noi chiamiamo “leggera” la musica pop: certo le note sono sette, ma allora avevamo alle spalle jazzisti e ora non c’è più neanche la squadra che evita tu sia monocorde. Io non facevo tutto da solo: avevo paroliere, discografico, arrangiatore. E musicisti veri con cui suo- nare dal vivo in sala». Avere grandi hit non toglie la voglia di crescere? «Molti dicono che il vero Bobby non si conosce per questo e forse hanno ragione. Cause? Immaturità, pigrizia, molta insicurezza. E certe imposizioni dall’alto: ricordo Peek-a-boo, una vera schifezza. Però da almeno vent’anni per me contano solo lo spirito, la voglia di togliermi degli sfizi, il fare dischi per ispirazione e non come “progetti”. Sono diventato ipercritico con me stesso, il nuovo disco vive di tutto ciò e dei bellissimi testi di Mogol». Lei ha un figlio piccolo, Ryan: a vent’anni, potrà ancora trovare dischi di Elvis da ascoltare? «Bellissima domanda. Ryan ha una fortuna: mia moglie Tracy erediterà i miei tremila dischi di rock, blues, country, jazz, standard… Però penso che solo chi avrà grande apertura mentale e possibilità economiche, potrà ascoltare la musica bella che noi abbiamo conosciuto. Serve il miracolo che almeno i network si convertano alla cultura: che meraviglia, goderne…».