Agorà

I 400 anni dalla nascita. Blaise Pascal e la vertigine del credere

Carlo Ossola lunedì 19 giugno 2023

Un ritratto di Blaise Pascal

Ogni secolo ha avuto il suo Pascal: il XVII, quello in cui egli nacque e morì (19 giugno 1623-19 agosto 1662), conobbe il grande matematico del trattato sulle coniche, il fisico degli esperimenti sul vuoto, il polemista antigesuita delle Provinciales, e l’apologeta fervido del Cristianesimo, impegnato in un progetto incompiuto, quello delle Pensées, che gli amici giansenisti raccolsero, organizzarono, con omissioni e integrazioni di frammenti di lettere, nella celebre edizione detta “di Port-Royal” nel 1669-1670. È la lettura che si impose sino a Baudelaire: «Pascal avait son gouffre, avec lui se mouvant. / Hélas! tout est abîme» (Le Gouffre, da Les Fleurs du Mal). Ma il Settecento dei Lumi offrì un Éloge et Pensées de Pascal, édition établie par Condorcet, annotée par Voltaire (1776-1778), ove Voltaire acutamente critica il principio pascaliano di voler tenere insieme la conoscenza dell’uomo (la sua grandezza e miseria) e la conoscenza di Dio. In una celebre lettera del 1735 al gesuita René-Joseph de Tournemine, egli osserva: «Pascal pretende – affinché una religione sia vera – che debba conoscere a fondo la natura umana e renda ragione di tutto ciò che avviene nel nostro cuore. Io pretendo che non così si debba esaminare una religione, perché è trattarla come un sistema filosofico; pretendo che occorra semplicemente vedere se essa è rivelata o no».

Di questa gigantesca scommessa (il “pari” pascaliano) Châteaubriand, ad apertura del secolo XIX e dell’età romantica, ben vide il fascino e i rischi, nel suo Génie du Christianisme, 1802, ove sottolinea, con immagine pungente tanto verso Pascal che verso Voltaire: «Vi è un monumento curioso della cristiana filosofia, e della filosofia del giorno, i Pensieri di Pascal, commentati dagli editori. Par di vedere le rovine di Palmira, i superbi avanzi del genio e del tempo, appiè de’ quali l’Arabo del deserto ha costrutto la sua miserabile capanna. Voltaire ha detto: “Pascal, pazzo sublime, nato un secolo troppo presto”: si capisce cosa voglia significare quel “secolo troppo presto”».

In certo modo, sì, le Pensées sono come le rovine di Palmira: un ambizioso disegno cosmico di cui non rimangono che frammenti; e certo l’Ottocento, avvertito della tensione di questo possibile iato tra visione antropologica e visione teologica, ha preferito accrescere, sin dall’edizione Cousin-Faugère delle Pensées, la drammaturgia tragica del Figlio: «Jésus sera en agonie jusqu’à la fin du monde » (Le Mystère de Jésus).

La prima metà del XX secolo ha offerto edizioni canoniche delle Pensées (quelle di Léon Brunschvicg e poi di Jacques Chevalier); nel secondo dopoguerra, tuttavia, i filologi si sono di più in più affisati su una trascrizione delle Copies A o B della Bibliothèque Nationale de France, riprodotte dai diversi studiosi con diligente cura, ma con risultati di lettura meno incisivi. Noi abbiamo delle “liasses” di pensieri in parte organizzati e delle indicazioni di “plan” e di “ordre” da parte di Pascal; il resto è ricostruzione dei suoi editori, sin dai primi, gli amici di Port-Royal. Non si può che piegarci all’incompiutezza fascinosa di quei frammenti e proporne qualche “bella infedele” – la “vera” edizione sempre ci mancherà. Basti osservare, semplicemente, come si sigillano le due ultime edizioni “Pléiade” delle Pensées: quella che leggiamo oggi (edizione Michel Le Guern): «Le cose mondane più irragionevoli divengono le più ragionevoli a causa della sregolatezza degli uomini» e quella che si lesse per tutto il secondo Novecento (edizione Jacques Chevalier): «Eorum qui amant. Dio attrae il cuore di coloro ch’Egli ama. Deus inclinat corda eorum. Colui che L’ama. Colui che Egli ama».

Non è forse tutta qui l’essenza del cristianesimo?

Se non vogliamo che Pascal scompaia dall’orizzonte del XXI secolo, se vogliamo ancora poter ripetere, con Pasolini: «Il mio libro erano stati i Pensieri di Pascal» (Non ho amato Claudel, 1955) o rivedere – comprendendone la parabola filosofica e religiosa – Ma nuit chez Maud diÉric Rohmer (1969); se vogliamo che le Pensées restino, come per Barthes, «un miracolo di pudore e di distanza – penso a Pascal» (La préparation du roman, lezione al Collège de France del 15 dicembre 1979), occorre ripartire dall’inobliabile Préface di Jean Guitton all’edizione Chevalier: «In questo spirito pascaliano occorre leggere i pensieri di Pascal; intendo dire: considerando ciascuno di essi come legato a tutti gli altri, e tutti riflettendo. Questi frammenti sono come delle piccole chiazze d’acqua dopo un temporale: ciascuna, benché indipendente, riflette - come in uno specchio opaco – le costellazioni».