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MILANO. Blair: «Libertà religiosa nodo del XXI secolo»

Alessandro Zaccuri venerdì 11 novembre 2011
​Quando arrivano le domande sulla crisi italiana, Tony Blair fa subito ricorso alla miglior tradizione diplomatica: siete un Paese con straordinarie risorse, siete persone di eccezionale talento, questa è un’opportunità, una sfida che vincerete. Se però si prova a insistere, chiedendogli per esempio come si comporterebbe nei panni di Mario Monti, l’ex premier britannico lascia sfuggire un impercettibile sospiro e prova a sottolineare qualche concetto fondamentale. «Non si può risolvere una situazione come l’attuale facendo ricorso a categorie tradizionali quali destra e sinistra – ribadisce –, né tanto meno ragionare su provvedimenti a breve termine. Ogni decisione va inserita in un contesto più ampio. E il contesto è questo: se i conflitti del XX secolo sono stati causati dall’ideologia, il XXI secolo si è aperto nel segno di un diverso contrasto, nel quale sono cruciali le differenze di tipo religioso e culturale. Da qui dobbiamo partire, nella consapevolezza che senza libertà religiosa non esiste libertà e quindi non esiste democrazia». Parola di statista, certo, ma anche di credente. Nel 2007, pochi mesi dopo la fine del suo ultimo mandato a Downing Street, Blair è stato protagonista di una conversione al cattolicesimo che, dal suo punto di vista, non ha avuto nulla di clamoroso: «Da anni accompagnavo mia moglie a Messa – ricorda –, ormai mi sentivo a casa». Da allora si dedica con passione alla Tony Blair Faith Foundation, (Tbff) che promuove in tutto il mondo azioni di dialogo e convivenza tra le fedi. Anche in Italia, come dimostra il programma «Faith To Face», destinato a studenti tra gli 11 e i 16 anni, che ora approda nel nostro Paese grazie a un accordo con il ministero dell’Istruzione. E come dimostrano ancora di più i seminari sui tema del secolarismo e della laicità che hanno fatto tappa ieri all’Università Cattolica di Milano sotto forma di un dialogo tra lo stesso Blair e il rettore Lorenzo Ornaghi, i cui interventi sono stati introdotti dal presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, Giorgio Vittadini, che da tempo collabora con la Tbff. La premessa su cui si fonda la riflessione di Blair può essere sintetizzata in una formula semplice quanto accattivante: «La religione conta».Anche a dispetto delle previsioni che, fino a qualche decennio fa, ci portavano a ritenere che lo sviluppo di una società sarebbe andato di pari passo con l’affievolirsi dell’importanza assegnata alla fede. «Non è andata così – ripete Blair –. Al contrario, il numero dei credenti è cresciuto di più proprio in quelle parti del mondo dove riscontriamo oggi le maggiori prospettive di sviluppo». Un fenomeno imponente, ma anche complesso. Blair insiste sul dramma delle persecuzioni religiose («Attenzione – avverte – in Medio Oriente e Nord Africa sono proprio i musulmani a essere più minacciati, almeno in termini percentuali»), torna sulla frattura dell’11 settembre 2001, ma non per questo è propenso ad accettare la logica dello "scontro di civiltà". «L’esperienza di rinnovamento che la Chiesa ha vissuto all’epoca del Concilio Vaticano II – suggerisce – può fare da modello per il mondo islamico, specie nell’attuale contesto delle cosiddette primavere arabe». Il nodo, in definitiva, rimane quello della prassi politica e dunque dell’estensione dei princìpi democratici. Un processo che deve guardarsi non soltanto dalle derive del fondamentalismo, ma anche dal rischio, forse più insidioso ma non per questo meno concreto, di un secolarismo che si ostina a negare ogni rilevanza politica all’esperienza religiosa. «Un’umanità senza fede sarebbe profondamente impoverita, anche se si progredisse materialmente», dichiara Blair. Sostenere il contrario significa trincerarsi in una chiusura mentale da cui discendono appunto violenza e pregiudizio. L’apertura verso l’altro, i percorsi di comprensione e condivisione di cui tanto si avverte la necessità configurano un compito che, secondo Blair, «non può essere lasciato solo alla politica», tanto meno se la politica stessa cede alla tentazione di arroccarsi in tecnicismi procedurali. «I leader religiosi – invita l’ex primo ministro – devono trarre dalle loro tradizioni e dai loro testi sacri i valori e la visione necessari a creare una cultura della democrazia». Ognuno con i suoi mezzi, ma tutti insieme, perché «la fede appartiene al mondo e il mondo ne ha bisogno». E anche in questa formula, ammettiamolo, risulta difficile separare il credente Tony dallo statista Blair.