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In libreria. Il filosofo Lucian BLAGA e le latitudini rurali del mistero

Simone Paliaga sabato 20 agosto 2016
È solo questione di stile! Si trattenga l’immaginazione dal correre verso gli abusati cliché del life style oggi tanto in voga. Niente moda, diete a zona o spericolati viaggi avventura nel mondo. O per lo meno solo in parte. Quando Lucian Blaga parla di stile allude alla più profonda essenza metafisica dell’uomo. Senza di esso, senza stile, l’uomo non potrebbe esprimere appieno la sua umanità. Questo è il cuore della Trilogia della cultura del filosofo rumeno Lucian Blaga pubblicata per la prima volta integralmente con la curatela di Giancarlo Baffo per le edizioni della Fondazione Centro Studi Campostrini (pp. 562, euro 35).  Di Lucian Blaga poco si conosce al di fuori dalla Romania. A differenza di Mircea Eliade o di Emil Cioran, di Benjamin Fondane o di Brancusi rimane quasi del tutto ignorato. Segnato dalla sua nativa Transilvania,  Blaga sviluppa nel corso degli anni Trenta una metafisica della cultura e dell’inconscio che fa del villaggio, questo luogo di vita, lo snodo cruciale per acquisire consapevolezza di sé. Per Blaga storia e folklore sono le dimensioni proprie per l’affermarsi dell’individualità di un uomo e di un popolo.  Blaga non è un teologo in senso proprio, anche se figlio di un pope. E neppure un apologeta dell’ortodossia. Per lui Dio è silenzio, forse memore in questo del Rilke delle Elegie duinesi di certo letto negli anni universitari trascorsi a Vienna. Tuttavia il suo pensiero così come la sua poesia rimangono fortemente avvolti da una marcata sensibilità cristiana. Lucian Blaga, già da collaboratore della rivista Gandirea, il periodico rumeno più influente tra le due guerre, prova a dare nuovo impulso allo spirito nazionale della sua Romania sprovincializzando le particolarità nazionali e spirituali del suo popolo. Intento non diverso da quello accarezzato da gran parte della generazione che faceva capo a Eliade, Cioran e Constantin Noica.

Il villaggio di Camp (Transilvania) negli anni TrentaMa a differenza dell’atmosfera prevalente a Bucarest e dintorni resterà ben estraneo a sentimenti antisemiti. Dopo gli studi universitari e una breve carriera giornalistica nel 1926 entra nel servizio diplomatico. Per una decina di anni presta servizio a Varsavia, Praga, Vienna, Berna e Lisbona. Eletto dell’Accademia Romena nel 1937, pronuncia come prolusione di ingresso l’Elogio del villaggio rumeno. Due anni più tardi conquista la cattedra di filosofia all’Università di Cluj, ma con la fine della Seconda guerra mondiale la sua fortuna declina. Nel 1948 Blaga rifiuta di prestare giuramento al nuovo regime comunista e nell’arco di qualche mese si vede espulso dall’università e dall’Accademia Romena. I suoi libri vengono rimossi da biblioteche e librerie e ai nuovi è impedita la pubblicazione. Gli viene concessa solo l’attività di traduttore che culminerà nel 1955 con la cura, la prima nella sua lingua, del Faust di Goethe. Il regime comunista riduce progressivamente Blaga all’isolamento al punto di opporsi alla sua candidatura, nel 1956, al premio Nobel per il suo talento poetico. L’invio di emissari a Stoccolma basterà a persuadere l’Accademia svedese ad assegnarlo, al posto suo, al poeta spagnolo Ramón Jiménez. Dal 1949 al 1959 finisce a lavorare presso la Biblioteca dell’Accademia di Cluj. Si spegnerà due anni più tardi e troverà sepoltura nel suo villaggio natale. Oggi, preda come siamo di un pensiero spaesato e incapace di rispondere alle sfide del XXI secolo, sarebbe il caso di rileggere la sua fatica a lungo dimenticata. Soprattutto per il ruolo che riconosce alla cultura. «L’uomo – afferma il filosofo rumeno – in quanto creatore non si può manifestare se non entro coordinate stilistiche ». Solo esse gli permettono di abbandonare i lacci che lo vincolano all’immediatezza dei sensi e alla confusione degli stimoli. «L’esistenza umana – continua Blaga – è esistenza nel mistero, un’esistenza in virtù della quale il mondo come intreccio di dati immediati cade come polvere dai calcagni. Esistere in quanto uomo significa guadagnare una distanza rispetto all’immediato situandosi nel mistero». Solo questo allontanarsi consente all’uomo di diventare se stesso. «Situarsi nel mistero porta l’uomo a tentare una rivelazione del mistero. E per mezzo dei suoi tentativi di rivelazione l’uomo diviene creatore di cultura». La cultura non è dunque un orpello. Con essa l’uomo risponde a un’esigenza dell’esistenza preservandone la specificità. «Il Grande Anonimo, il principio supremo dell’esistenza, – scrive Blaga riecheggiando Dionigi l’Areopagita – sembra volere tenere l’uomo in uno stato creativo permanente ed è per questo che accorda all’uomo la possibilità di oltrepassare l’immediato per mezzo dello stile» ma senza conquistare il mistero. «Il Grande Anonimo ha fornito l’uomo di un destino creativo ma, con l’imposizione di freni trascendenti ha preso una misura tale per cui egli non gli si possa sostituire». Esclude «l’uomo dalla conoscenza assoluta con una censura trascendente a salvaguardia dei fini dell’esistenza in generale» ché altrimenti si sgretolerebbe.