Agorà

Biennale di Venezia. Dai padiglioni nazionali un futuro targato Africa

Alessandro Beltrami venerdì 10 maggio 2019

Non mancano le belle sorprese (insieme, ma non può essere diversamente vista la mole delle proposte e lo stato del sistema dell’arte, all’evanescente e al ripetitivo) tra le partecipazioni straniere alla Biennale di Venezia 2019. In questa edizione molte sono nei padiglioni ospitati all’Arsenale, ossia tra le nazioni che non possono vantare una presenza storica come quelle che hanno il proprio edificio ai Giardini. Non è un dato scontato, perché sovente nelle scorse edizioni tra i padiglioni all’Arsenale non erano poche le presenze “naïve”.

Su tutti spicca con forza il gruppo africano. Il Ghana, alla sua prima partecipazione, presenta un padiglione di forte impatto e ben pensato, tra locale e diaspora. È nei fatti un padiglione antologico, che porta anche figure riconosciute sul piano internazionale, ma lo fa ragionando sui concetti di identità e trasformazione. In una struttura curvilinea in terra cruda disegnata dall’architetto David Adjaye (con cittadinanza ghanese e britannica) troviamo sei artisti che praticano generi diversi: installazioni su larga scala, fotografia, video, pittura. Spiccano i dipinti di Lynette Yiadom-Boakye (candidata al Turner Prize), l’installazione di apertura di Ibrahim Mahama, che fa i conti (anche olfattivi) con il passato coloniale, le fotografie di Felicia Abban, la prima fotografa professionista del Ghana ora 83enne, che tracciano un ritratto delle contraddizioni e delle ambizioni della politica africana degli anni 60 e 70; sono infine una conferma i grandi “arazzi-scultura” che El Anatsui realizza con migliaia di lastre, ritagli di confezioni, tappi di bottiglia e fili di rame.

Colpisce anche il padiglione del Sudafrica, che contempla video, pittura e installazione. Gli artisti (alcuni dei quali coloured, ossia meticci) si propongono di portare alla luce lo stato di impasse dal del paese e contemporaneamente si avvertono come parte della storia del mondo.

In linea con il mainstream internazionale ma efficace nel gestire lo spazio con lunghe cortine di carta velina nera, è il padiglione del Madagascar, realizzato da Joël Andrianomearisoa, artista che lavora tra Antananarivo e Parigi. Fuori Arsenale, nei pressi della chiesa della Pietà, si trova il padiglione dello Zimbabwe. Anche qui gran parte delle opere sono di bella qualità e con media diversi. Su tutti spiccano i raffinati lavori con il tessuto di Georgina Maxim e i dipinti di Kudzanai-Violet Hwami, tra storia, tradizione e presente, memoria fotografica, oralità e mondo digitale.

Ma ci sono anche altri padiglioni di rilievo tra gli outsider dell’Arsenale. L’Albania propone una installazione di Driant Zeneli al cui centro c’è un film fantascientifico dal sapore tarkovskiano (ma la traduzione distante dallo schermo non aiuta la fruizione). Per la Turchia Inci Eviner propone una vasta installazione di stampo architettonico percorsa da proiezioni video di figure umane digitalmente alterate: i corpi si ibridano, colano, appaiono amputati o ridotti a torsi. Una sorta di dimensione alla Bosch a cui si accompagnano inferriate (anch’esse modificate) e porzioni di sedie. Un ambiente metaforico che racconta una transizione incompiuta e uno stato di prigionia latente.

Per il Lussemburgo Marco Godinho espone centinaia di quaderni bianchi e allo stesso tempo usati, delicato allo stesso tempo monumentale lavoro su ciò che accade nel Mediterraneo. Infine per l’Argentina Mariana Telleria allestisce una gigantesca processione barocca di sette moloch frutto del conglomerato di automobili, tronchi d’albero, cornici e tessuti, con un contrasto tra brutalità e dettagli da alta moda. Il titolo è El nombre de un país.

E i big? Il padiglione della Germania, con Natascha Süder Happelmann, ha presenza visiva (una diga di cemento da cui percola un liquame rappreso) fusa con un paesaggio sonoro basato sul fischietto (l’interazione o la presenza di strumenti musicali è un piccolo fil rouge che riemerge anche nei padiglioni del Giappone e di Singapore) ma non prende davvero il largo. Molti altri padiglioni ricadono su scelte identiche al passato (cerebrale lo spagnolo, l’eredità di De Stijl in quello olandese, l’ambiente per gli scandinavi).

Avrà molto successo invece il padiglione francese, con un progetto di Laure Prouvoust che non solo gestisce in modo ineccepibile gli spazi interni ma inserisce l’accesso del visitatore, da un ingresso di servizio posteriore, dentro il meccanismo narrativo di tutta l’opera. Al cuore c’è un video – il più bello di quelli presenti tra i padiglioni nazionali – che è in estrema sintesi un surreale road movie da Parigi a Venezia ma il montaggio ellittico e zeppo di sincopi e pause, il continuo ricorso a leitmotiv (il polpo-protagonista, i pesci, l’occhio, il cibo, gli uccelli, il mare), una temporalità magica, il tono poetico e ironico, lo fanno deragliare da qualsiasi linea narrativa e sfuggire a ogni spiegazione logica. Il film dilaga poi nelle sale del padiglione attraverso ambienti, oggetti, situazioni, gli stessi personaggi/performer mescolati nel pubblico.

Il padiglione degli Stati Uniti offre invece una bella occasione di conoscere Martin Puryear, poco noto in Italia (lo è maggiormente in Europa). Classe 1941, Puryear è uno scultore/carpentiere le cui opere sono caratterizzate dall’altissima qualità artigiana della realizzazione. Attraversate da un curioso ritornare sul valore metaforico di copricapi e coperture, contengono rimandi al surrealismo, al minimalismo o a certo gigantismo pop, ma sfuggono a una catalogazione. Le sculture di Puryear appaiono piuttosto una riflessione (anche formale nella pulizia delle forme e delle proporzioni) sulla natura “politica” del classicismo negli Stati Uniti, con tutte le sue contraddizioni.