Agorà

Letteratura. C'è una vita chiusa in biblioteca

Massimo Onofri sabato 8 aprile 2017

La critica, fuggita o espulsa dalle università, priva ormai di ogni prestigio sociale, ha per converso acquistato oggi una libertà d’invenzione che, se talvolta rischia di pregiudicarla in esiti di qualche improvvisazione, talaltra però la ricandida come genere letterario a un rinnovamento delle sue premesse, a una ridefinizione di se stessa che, proprio perché privi d’ogni dogmatismo e tracotanza teorica, ce la restituiscono in una guisa davvero sorprendente. Per rendersene conto, basta scorrere l’indice di Letteratitudine3, appena proposta dell’editore LiberAria di Bari, rivista di «Letture, scritture e metanarrazioni» che il siciliano Massimo Maugeri ha ricavato dal suo blog letterario per il Gruppo l’Espresso a dieci anni dalla sua nascita.


Ecco allora – oltre alle più canoniche interviste a scrittori come Ferdinando Camon, Dacia Maraini, Clara Sereni o il più giovane Nicola Lagioia, e accanto a un bell’Omaggio a Vincenzo Consolo a molte voci –, la curiosissima sezione intitolata «Autoracconti d’autore»: ove 46 scrittori – tra i quali mi piace ricordare Affinati e Doninelli, Cutrufelli e Giacobini, Cooper e Lansdale, Veladiano e Nisini, Covacich e Balzano – ci parlano d’un loro romanzo. Senza dire della sezione successiva, davvero bella, che ci propone «Lettere a personaggi letterari e autori scomparsi»: in cui incontriamo firme acclarate come Mariolina Bertini, Sandra Petrignani e Lia Levi che scrivono a Balzac, alla Duras e alla Mansfield, ma anche giovani brillanti come Andrea Caterini e Paolo Di Paolo, che si rivolgono a Gregorio Samsa e Tabucchi. Assai commovente, per me, la lettera inviata da Romana Petri all’indimenticabile amico, suo e mio, Rocco Carbone, morto tragicamente nel 2008. Strano che, tra i tanti collaboratori a questo numero, e considerata la vocazione allo scouting del pur giovane Maugeri, non si trovi uno dei critici e saggisti letterari più affascinanti di questi ultimi anni, il napoletano e appartato Fabrizio Coscia, il quale, dopo i notevoli saggi narrativi di Soli eravamo (2015), manda ora in libreria, per Melville Edizioni, La bellezza che resta: un titolo che trova la sua migliore spiegazione in una risposta che il vecchio Renoir, ormai straziato nelle mani da una forma molto grave di artrite reumatoide, diede a Matisse il quale gli chiedeva ragione di tutta l’ostinazione che lo teneva impegnato, senza requie, alle sue terminali Bagnanti: «Perché il dolore passa – disse – ma la bellezza resta».

E ciò, in effetti, ci restituisce questo libro, che incatena sino all’ultima pagina e anche dopo: un’alta meditazione – seppure scritta col tono d’una limpida e affabile, ma elegantissima conversazione – sul rapporto tra l’opera d’arte estrema e la fine della vita del suo autore. Tutto muove da un fondamentale romanzo di Tolstoj apparso postumo, che Coscia definisce omerico e shakespeariano, e cioè Chadži-Murat, dedicato all’eroe caucasico ottocentesco della resistenza antirussa, ma poi ai russi alleato contro il suo vecchio capo ceceno, che stava per eliminarlo. Ho detto Tolstoj, esaminato qui con continui e concentrici approfondimenti, ma per muovere anche verso Freud, ammalato di cancro alla mascella, il quale scrive il postremo L’uomo Mosè, o – per citarne solo alcuni – verso il Leopardi napoletano della Ginestra, il Keats di Ode a un usignolo, lo Strauss dei Lieder. Coscia, come in stato di grazia e senza la minima forzatura, sa passare dai terroristi ceceni della strage di Beslan del 2004, a Tolstoj allievo ufficiale nel Caucaso del 1852, quindi al nonno colonnello dell’esercito italiano nella guerra d’Etiopia. E non potrebbe essere altrimenti, perché tutto converge, anche prosodicamente, verso i giorni dell’agonia del padre in ospedale: l’uomo bruno e bellissimo, di prepotente biologia, che s’accampa in copertina con la moglie e il figlio. È lì che Coscia vuole arrivare: per un’indagine, di struggente empatia, d’un rapporto difficile e conflittuale, mentre un bilancio amaramente s’impone, laddove tutte le forze della letteratura sono impiegate in nome e al fine della verità, anche morale.

Che cosa sarebbe, del resto, la letteratura (e tutta l’arte), se non si ponesse anche come un contributo alla costruzione d’un qualche senso della nostra esistenza? Coscia non ha dubbi: e ci racconta come, dopo la sua prima e casuale lettura, quella di Addio alle armidi Hemingway, la letteratura gli si sia trasformata da «rifugio» e fuga a «potenziamento della vita stessa». Io ne sono convinto: poco senso e poco interesse avrebbe la critica letteraria, se non si autorizzasse, tout court, come critica della vita. Che è la risultanza più sicura del libro del siciliano Filippo Martorana, pubblicato dalle Edizioni Lussografica, e cioè Atlantide, dal significativo sottotitolo «Circospezioni e fantasticherie al tempo di Facebook», per dire che ci troviamo davanti a riflessioni maturate anche sui social. Martorana è attentissimo studioso di Sciascia e un saggista assai dotato: che qui ha voluto darci un solforoso taccuino, o, se possiamo dirlo, il suo Nero su nero, per citare uno dei libri più densi di quello scrittore di pensiero che, appunto, Sciascia fu. Sentite qua Martorana, già dalla seconda pagina: «Bisogna sfoltire, sfoltire, sfoltire. La vita non è pura accumulazione, ma progressivo discernimento, intuizione, scelta. Scelta? Quella che i Greci chiamavano airesis? Sì, la vita è una continua eresia». Ecco: la vita, ancora la vita. Che Martorana insegue con invidiabile scarto di tono e registro, passando con disinvoltura, e sempre con argomenti stringenti, dalle domande su Dio o sul senso della filosofia alla più corriva cronaca, anche televisiva, riservando a Leopardi e – che so? – a Fazio e Bonolis la stessa serissima attenzione, lo stesso rigore. Sullo sfondo un Paese, il nostro, che duole sempre: «In Italia, di questi tempi, se non hai la certificazione antimafia non puoi fare niente, tanto meno il mafioso».