Agorà

Tennis. Bertolucci: io e Adriano. Doppio sogno

Massimiliano Castellani venerdì 30 ottobre 2015
 Adriano Panatta e Paolo Bertolucci negli anni ’70 hanno rivoluzionato il nostro tennis trasformandolo da disciplina elitaria in sport nazionalpopolare. Bertolucci perdeva contro Panatta, ma era forte anche come singolarista. Come ha detto lo svedese Björn Borg, «Paolo era dotato di un talento naturale oltre a essere una persona meravigliosa e divertente», ma in coppia con Adriano era “Il Doppio”, come racconta nella sua autobiografia Pasta Kid. Il mio tennis, la mia vita, scritta con Lucio Biancatelli e con prefazione di Edoardo Nesi della quale anticipiamo un estratto in questa pagina (Ultra Sport, pagine 126, euro 14,00). Fa strano che uno nato a Forte dei Marmi nel 1951, figlio del maestro di tennis Gino, è noto nell’universo dei gesti bianchi come “Pasta Kid”. «È stato Bud Collins, giornalista del “Boston Globe” eminenza grigia del tennis mondiale, a chiamarmi così. È un nomignolo che sintetizza un certo talento che credo di aver dimostrato, ma anche la mia eterna lotta contro la bilancia…». Una sfida questa cominciata nel college di Formia sulla “bascula” di Mario Belardinelli, l’uomo che aveva insegnato a giocare a tennis al Duce. «Per me il “Signor Belardinelli” – lo chiamavamo così – è stato un secondo padre. Pretendeva molto in allenamento e non tollerava gli eccessi. Il mio tallone d’Achille è sempre stata la gola, così la volta che mi ingozzai di paste alla crema Belardinelli andò su tutte le furie… L’avrei fatta franca alla bilancia – sorride – se solo non fossi stato “tradito” da quello (bip!) di Adriano Panatta». Il “compagno” Adriano, il figlio del custode del Tennis Club Parioli. «Con Panatta ci siamo conosciuti che eravamo ragazzini, abbiamo condiviso l’esperienza del college a Formia e per due anni anche la stessa casa romana. In campo eravamo complementari: a me toccava il lavoro sporco e lui poi arrivava a rete a dare il “colpo di ciuffo” con la sua “veronica”». Mai provato un pizzico d’invidia per l’Adriano imperatore del Foro Italico, amatissimo dalle donne e idolo delle folle? «Questa leggenda del “Bertolucci paffutello” e del “Panatta Adone” va smitizzata – sorride divertito –. A smontarci ci pensava Belardinelli che a me urlava continuamente “muovi quel sedere, forza!” e a Adriano lo chiamava “La Costruzione: perché – diceva – sei fatto bene dalla cintola in su, ma sotto figlio mio sei un disastro”. Il nostro è stato un matrimonio sportivo e come tutte le coppie abbiamo litigato, in campo ci mandavamo a quel paese e per un giorno magari non ci rivolgevamo la parola. Ma poi al secondo giorno Adriano arrivava e mi faceva: “Dai basta, parlami muto!” e si tornava più amici di prima». Cosa faceva di voi il doppio ideale? «La fiducia reciproca. Io ero più compatto e veloce, ma meno resistente, un sessantametrista, lui uno da 200 e 400. Adriano mentalmente si incarogniva fino a che non portava a casa il risultato, io ero molto più debole sul piano della concentrazione. Io più riflessivo, lui più rissoso: in Spagna si gettò tra il pubblico che gli sputava e cominciò a menare, in Romania aveva aizzato gli spettatori dicendo a tutti “ci vediamo fuori”. E a fine match c’erano dieci energumeni che lo aspettavano per picchiarlo». Nel 2016 saranno quarant’anni dalla prima e unica Coppa Davis azzurra: se la rimetterebbe quella maglia rossa in segno di sfida alla dittatura di Pinochet? «Certo che sì. Prima di andare a in Cile ero stato un mese in Argentina da dove, oltre ai tornei, facevo anche il corrispondente per la Rai e posso assicurare che forse la dittatura di Videla era anche peggio di quella di Pinochet. Quella finale stava per saltare molto prima che indossassimo le maglie rosse e noi sapevamo che sarebbe stata un’occasione unica (poi abbiamo perso altre tre finali in trasferta). Grazie all’abilità diplomatica del nostro capitano Nicola Pietrangeli e al placet del leader del Pci Enrico Berlinguer siamo atterrati a Santiago già da vincitori». Quanto è cambiato il tennis negli ultimi quarant’anni? «Tutto è cambiato. Fino al 1974 eravamo dilettanti, ai tornei si andava da soli, adesso il campione ha sette tecnici nello staff e persino l’accordatore personale per la racchetta. Noi riuscivamo a fare la preparazione invernale, oggi è impossibile, si gioca almeno quaranta settimane all’anno e se non sei un genio della programmazione come Federer arrivi a settembre che hai le ruote sgonfie». Federer per lei incarna il «massimo esempio di campione»: chi sono stati i più grandi della vostra generazione? «Prima che grandi campioni, ragazzi come Borg, Noah, Nastase che mi chiamava “Maccaroni”, il poeta Vilas che fece innamorare Carolina di Monaco, sono stati dei grandi amici. Al torneo di Montecarlo del 1980 io e Adriano battemmo in finale quel mostro assoluto di McEnroe in coppia con Gerulaitis… Beh, alla sera si festeggiava tutti assieme e gli dicevamo: “Con voi la cicogna si è sbagliata, è un caso che siete nati al di là dell’Oceano invece che in Italia”. Oggi questo sarebbe impossibile». In Italia di Bertolucci e di Panatta non ne nascono più e a salvarci è il tennis femminile. «Probabile che quando si chiuderà questo straordinario ciclo vincente delle donne ci potrà essere una stasi, come è accaduto anche nel movimento maschile dove comunque dopo di noi sono passati i Canè, i Camporese, i Gaudenzi. E ora Fognini che potrebbe stare tra i primi dieci, ma quando va sotto pressione purtroppo gli salta il tappo: ed è un peccato perché quando mantiene la calma può giocarsela con chiunque». Finale di partita, che cos’è il tennis per Bertolucci? «Lo sport dell’integrazione, della lealtà e della conoscenza di se stessi e degli altri. Ai genitori dico di indirizzare i propri figli al tennis, ma di non investire su di loro come se fossero delle azioni di Borsa e di non illudersi di avere tra le mani una Ferrari quando invece è solo una piccola Cinquecento che magari va nella direzione sana del divertimento e non necessariamente in quella del diventare un campione ad ogni costo».