Agorà

30 anni dalla tragedia. Badaloni: «Basta tivù del dolore Vermicino? Un errore»

Tiziana Lupi giovedì 14 aprile 2011
Il 10 giugno 1981 a Vermicino, alle porte di Roma, il piccolo Alfredo Rampi cade in un pozzo. È una notizia di cronaca come ce ne sono tante. In breve tempo, però, quella notizia diventa un evento mediatico senza precedenti: 18 ore di diretta tv. Da quel momento la televisione non fu più la stessa. «Si scoprì che il dolore "tirava", come si dice in gergo. E, insieme, che poteva servire per spostare l’attenzione da altri argomenti» sostiene Piero Badaloni, allora conduttore del Tg1, che si trovò «per un motivo del tutto casuale» a gestire quella lunga diretta. La sua esperienza, a quasi trent’anni dalla tragedia, la ripercorrerà sabato 16 aprile alla quinta edizione de Le voci dell’inchiesta, in svolgimento a Pordenone da oggi a domenica 17 aprile. «Ho accettato l’invito con grande piacere perché credo che una riflessione su quella che banalmente chiamiamo "tv del dolore" sia assolutamente necessaria».Badaloni, possiamo davvero dire che la tv del dolore è nata a Vermicino, mentre un bambino di sei anni moriva in un pozzo?Diciamo che si è trattato di una prova generale. Innescata, come dicevo, da una semplice casualità: poco prima della chiusura del Tg1 delle 13 l’allora capo dei vigili del fuoco Elveno Pastorelli disse al collega che avevamo inviato a Vermicino che in un quarto d’ora avrebbero tirato fuori il bambino. Immediatamente si decise di non interrompere il telegiornale. Andammo avanti ore ed ore, complice, naturalmente involontario, anche l’arrivo sul luogo del presidente della Repubblica Pertini. Inizialmente, forse, non ci fu malizia nella decisione di lasciare accese le telecamere. Poi?Qualcuno si accorse di ciò che oggi, purtroppo, è diventata una consapevolezza quasi scientifica: che quella diretta avrebbe incollato milioni di spettatori alla tv. E che, particolare non trascurabile, avrebbe distolto l’attenzione da altri fatti. Non dimentichiamo che quelli erano giorni difficili per l’Italia: un mese prima c’era stato l’attentato a Giovanni Paolo II, eravamo in pieno scandalo P2 e, proprio il 10 giugno, fu rapito Roberto Peci, fratello di Patrizio, il primo pentito delle Brigate Rosse.Da allora ad oggi, la tv del dolore riempie i palinsesti di tutte le reti: ieri Cogne e il piccolo Samuele, oggi Sarah Scazzi e Yara Gambirasio. C’è un modo per tornare indietro?Basta riscoprire il senso del servizio pubblico. Almeno iniziamo da lì. Questo è uno di quei casi in cui guardarsi indietro fa bene. La nascita della concorrenza ha indotto il servizio pubblico ad una rincorsa verso il basso. E poi, lo dico a noi che facciamo informazione, ricordarsi che abbiamo un potere mediatico mostruoso. Pochi sanno che, nei giorni seguenti alla tragedia di Vermicino, ci fu un picco di suicidi per depressione e gli psicologi trovarono facilmente un nesso tra i due eventi. Lei è stato, ed è tuttora, corrispondente Rai da diverse sedi europee: come vanno le cose nelle tv degli altri Paesi?Un dato per tutti: la percentuale di cronaca nera, che nei telegiornali dei Paesi europei è del 4%, in Italia passa all’11%. E siamo il popolo che legge meno giornali e guarda più televisione.