Agorà

Basket. Basile, la famiglia vale più di un canestro

Antonio Giuliano martedì 24 dicembre 2019

Gianluca Basile, con la maglia della Fortitudo Bologna campione d’Italia nel 2004-2005

«Ho giocato fino a 41 anni ma durante tutta la carriera ho avuto incredibili complessi di inferiorità: per superarli sono andato per troppi anni oltre i miei limiti. Grazie al basket ho vissuto un’avventura straordinaria, ma oggi non mi manca, anzi a volte ne ho il rigetto. Ora mi dedico alla mia famiglia che per tanti anni ho trascurato». Sono le confessioni schiette e sincere di un campione di modestia e di umiltà che non ha bisogno di presentazioni: Gianluca Basile, 44 anni da Ruvo di Puglia, è uno degli ultimi vincenti della nostra pallacanestro, sia nei club che in Nazionale. La sua bacheca parla da sola. I primi due scudetti della storia della Fortitudo Bologna portano la sua firma (il secondo da capitano), ma nel suo palmarés c’è anche l’Eurolega conquistata da idolo di una delle società più titolate d’Europa, il Barcellona. Senza dimenticare successi che oggi sembrano irripetibili in azzurro, l’argento olimpico (2004) e le medaglie d’oro (1999) e di bronzo (2003) agli Europei. Un giocatore simbolo di una generazione anche se lui minimizza: «Non mi ritrovo nei giudizi che danno di me: non sono nato fenomeno e non avevo il talento di altri. Mi ha aiutato anche il timore che se non avessi sfondato sarei tornato ad alzarmi all’alba a raccogliere frutta con mio padre in campagna». E il “Baso” sorvola anche sul suo “tiro ignorante” (il tiro da tre punti realizzato nei momenti decisivi, un tiro forzato perché in equilibrio precario e/o con tanti avversari addosso) entrato ormai nel manuale del basket: «O magari solo nel vocabolario - dice ridendo - Erano davvero tiri troppo ignoranti, quelli di oggi sono più colti». Sposato e padre di tre figlie si tiene ora ben lontano dai parquet nel suo felice ritiro di Capo d’Orlando (l’ultimo suo club).
Bologna di nuovo protagonista nel basket italiano, col ritorno del derby in Serie A dopo dieci anni e una Virtus capolista grazie a un fuoriclasse che sta incantando: Milos Teodosic…
Fortissimo, lo conosco bene perché ci ho giocato contro nella finale di Eurolega che vinsi nel 2010 col Barcellona quando lui stava all’Olympiacos. Era giovane ma mostrava già qualità straordinarie. Sono contento perché da anni non si vedeva uno così in Italia. Ma faccio fatica a fare paragoni con Ginobili e Danilovic perché la Serie A di adesso non è agli stessi livelli di allora.
La Virtus può essere considerata la favorita per lo scudetto?
Troppo presto per dirlo. È vero che anche in panchina hanno uno come Djordjevic ma temo che siano troppo dipendenti da Teodosic. C’è sempre Milano che ha un grande coach come Messina: doveva essere la favorita ma anche per gli infortuni sta avendo alti e bassi. Anche Sassari è un’ottima squadra e non escluderei Venezia. Quest’anno le squadre italiane ci fanno divertire anche in Europa. Sono contento che dopo Milano c’è un presidente che investe molto alla Virtus e spero che anche la Fortitudo possa ritornare ai fasti di un tempo.
Eppure gli ultimi successi della Nazionale risalgono a quasi vent’anni fa con lei in campo.
Un peccato perché di talenti ne abbiamo e ne abbiamo avuti in questi anni. Anche all’ultimo Mondiale potevamo e dovevamo fare di più e credo che anche Sacchetti sia deluso. Ancora una volta ci è mancata la lucidità nei momenti decisivi. Quando vincemmo l’argento olimpico nessuno di noi giocava in Nba eppure eravamo leader nei nostri club e quindi abituati a prenderci la responsabilità negli ultimi minuti. Poi è vero che oggi nel campionato ci sono tanti stranieri, non si investe più nei vivai, ma per me alla base c’è la mentalità: se ci credi puoi farcela ad emergere.
Dicono che lei fosse “maniacale” negli allenamenti.
Di più. Ero “nazista”. Ho sempre pensato di non avere il talento di un Myers o di altri, per cui per stare al loro livello dovevo allenarmi cento volte di più. In realtà mi sono sempre sentito più scarso degli altri: ho convissuto con complessi di inferiorità allucinanti per quasi tutta la carriera e solo a Capo d’Orlando alla fine ho sentito meno tensioni. È stata durissima soprattutto agli inizi: ero molto timido e avevo paura di lasciare la mia casa, il mio ambiente a Ruvo.
Si è sempre considerato non grande un tiratore ma «uno che poteva fare canestro». Eppure i suoi “tiri ignoranti” sono passati alla storia.
Mi è capitato di rivederli, sono canestri assurdi di cui anch’io oggi non mi capacito. Soprattutto quello con la Fortitudo contro l’Efes, quello con Cantù contro Bilbao e quello nella semifinale olimpica contro la Lituania, la partita “perfetta”. Ho fatto sacrifici ma il basket mi ha dato tanto. Alla Nba non ci ho mai pensato perché non ne avevo il fisico. Sono molto legato a tutte le squadre in cui ho militato. Da Reggio Emilia che mi ha adottato dal niente alla Fortitudo il primo amore a grandi livelli e Barcellona il top. Non ho nessun rimpianto. Se però ho fatto la carriera che ho fatto devo ringraziare soprattutto mio padre.
Perché è stato così decisivo?
Dopo le medie non volevo andare più a scuola. Lui ci avrà sofferto perché laureato e insegnante di francese alle scuole serali: decise allora che sarei andato con lui ad aiutarlo nei campi alle 5 di mattina. Voleva che apprendessi la cultura del lavoro. È stata la mia fortuna perché il pensiero che se non avessi sfondato nel basket sarei ritornato a quella vita mi ha spinto a dare sempre di più. Ma papà era convinto che ce l’avrei fatta. Lui ha creduto in me più di chiunque altro. Da appassionato di sport mi fece fare anche un provino con il Bari calcio… Mi ha sempre stimolato nei momenti difficili. E ho imparato che a volte credere solo in te stesso non basta, devi affidarti a Qualcuno di più grande. Se anche la fede fa parte del mio essere è proprio perché vengo da una famiglia cattolica e ho frequentato i salesiani: è bello credere in qualcosa più grande di te.
Nonostante gli appelli anche nel basket, il derby di Bologna si è giocato il giorno di Natale…
Purtroppo so che cosa significa, mi è capitato spesso in Spagna. Capisco che da professionista vieni pagato e anche tanto. Ma a rimetterci sono le famiglie dei giocatori: mi arrabbiavo molto quando dovevo andar via dalla famiglia il giorno di Natale lasciando i bimbi piccoli… Ti dicono “siete dei privilegiati”. Sì d’accordo, ma il rovescio della medaglia è che non esistono festività e non esistono domeniche... Mi sono sposato tra una gara e l’altra di una serie playoff e il giorno del matrimonio, concordato un anno prima, per puro caso non è coinciso con la partita. Ma non dimentico che la mia prima figlia è nata mentre ero in Francia agli Europei e l’ho vista solo dopo due settimane. Per fortuna ho recuperato assistendo almeno alla nascita dell’ultima.
Che cosa vorrebbe trasmettere alle sue figlie?
La forza di crederci sempre in tutto ciò che fanno e non accontentarsi: a volte è troppo facile dire non ce la faccio. È importante avere degli obiettivi e perseguirli mettendoci passione, avendo sempre rispetto di tutti.
Si sente di escludere il basket anche dal suo futuro?
Adesso sì. Lo seguo quando posso ma ora non è la mia priorità. Sono impegnato nel sociale con mia moglie, ho diversi hobby come la pesca… Vivo ogni giorno felice per quel che ho, apprezzando il dono grande della libertà. Voglio riprendermi tutta la vita che non ho vissuto.