Agorà

Venezia. Baselitz, ritratti a testa in giù: dal gesto eretico all'accademismo

Maurizio Cecchetti venerdì 19 luglio 2019

Una sala alle Gallerie dell'Accademia con i quadri di Baselitz

Sulla copertina del monumentale catalogo in inglese edito per la mostra Baselitz Academy (fino all'8 settembre alle gallerie dell'Accademia di Venezia)c’è un nudo maschile seduto, nella classica posizione che il pittore tedesco predilige dalla fine degli anni Sessanta. L’opera è del 1972, e la mostra veneziana in corso alle Gallerie dell’Accademia, gliene affianca una decina a figura intera dipinte fino al 1976. A dire il vero, di opere capovolte ce ne sono altre, alcuni ritratti del 1969, nello stile neoespressionista che caratterizzò la pittura e la scultura tedesca di quegli anni – da Kiefer a Hödicke, ad alcuni loro discepoli (Lüpertz, Fetting, Zimmer e altri di area svizzera e austriaca, come Disler e Anzinger) –; ma ci sono anche una serie di dipinti del 2018, sempre capovolti, ancora ritratti e nudi, la cui tavolozza è assai più fredda, che svaria dal grigio all’azzurro, da cui escono le figure di un rosa pallido, interferite da segni che sono poi le linee costruttive di scale che i nudi scendono, ma in realtà, trovandosi a testa in giù, ascendono. Una idea che lontanamente mi ricorda il modo con cui Duchamp volle sconfessare la visione retinica della pittura realista, proponendo un nudo che scendeva le scale frammentandosi in tante schegge come uno specchio infranto (opera a cui credo si possa riconoscere di essere già oltre l’idea del cubismo).

A chi gli chiede se questa scelta di porre le figure a testa in giù corrisponda a una visione critica della realtà, Baselitz ha risposto più volte che l’origine di quel “rovesciamento” fu dettato, più banalmente, dal bisogno di farsi notare. C’è da dubitare di una spiegazione così cinica e fraudolenta, soprattutto se si conosce il lavoro precedente di Baselitz. La cosa non deve essere giudicata solo come una furbizia (anche se forse lo fu in parte); bisogna infatti ricordare che Baselitz aveva dipinto a metà degli anni Sessanta un ciclo di uomini eroici e titanici, brutali e potenti come un frutto sorgivo della terra (un nuovo tipo, di cui pochi anni fa il Palazzo delle Esposizioni di Roma ci diede una campionatura straordinaria) –: uomini-alberi, eroi delle foreste tedesche, corpi mitici pieni di nodi e dalle fibre ritorte; e non si sottovaluti il fatto che Beuys – maestro che Baselitz ben presto contestò –abbia concluso la sua vita poco dopo aver iniziato l’opus magnum, la piantumazione di settemila querce, sorta di enorme bosco sacro e opera di purificazione della memoria tedesca ancora oppressa dalla colpa di un popolo che si era macchiato di una delle più nefande azioni di sterminio mai viste in terra. Quel ciclo eroico-teutonico di Baselitz resta uno dei grandi momenti della pittura europea mentre intorno la pittura si stava diradando per lasciare spazio a soluzioni concettuali che hanno pesato e pesano ancora troppo nell’evoluzione dell’arte occidentale. Per questo non si giustifica molto l’affermazione dell’artista secondo cui un bel giorno provò a capovolgere un quadro e tutti notarono quella bizzarria, cominciarono ad accorgersi di lui e convincendolo a perseverare fino a farne un suo marchio di fabbrica.

Baselitz è pittore coltissimo, lo si vede nei disegni degli anni Sessanta. Non dipinge d’istinto, la sua pittura è testa e viscere, come gran parte dei pittori neoespressionisti tra gli anni Settanta e Ottanta. Ed è per questa meditazione sulla forma e sul segno scaturiti da dentro come un impulso vitale che la pittura tedesca dell’epoca incarna un momento fondamentale della storia dell’arte del secondo Novecento. Si può porla in relazione alla corrosiva opera antitotalitaria giocata dalla cultura occidentale verso la Cortina di ferro istituita dal comunismo sovietico e incarnata visivamente dal Muro di Berlino. Muri, mattoni, pietre, cortine compaiono anche nella pittura di Baselitz e dei suoi compagni tedeschi degli anni Sessanta. Ma fra cultura e politica in Baselitz sembra esserci uno iato. L’arte è arte, non rispecchia questioni sociali. L’artista risponde a norme che determinano l’autonomia del suo fare rispetto alla dipendenza da proclami politici, pensa Baselitz. Questo, però, non significa che l’arte non abbia anche una dimensione politica: testimoniare la libertà dell’uomo e la felicità della sua azione creativa.

Ma poi accade che un artista comincia a essere apprezzato dai collezionisti, dai musei (vera disgrazia per gli artisti viventi che finiscono spesso per adeguarsi alle dimensioni degli spazi museali sempre più grandi e ingigantiscono i formati rinunciando così a dipingere per le case dell’uomo comune, certamente benestante al punto da poterli comprare ma soprattutto in possesso di spazi più calibrati al quadro di misure classiche sebbene grandi); ecco, con la fa- ma, il successo, il rialzo dei prezzi, l’artista, soprattutto se di livello internazionale, entra nel giro dei grandi galleristi e mercanti – per Baselitz oggi si tratta di Gagosian, che finanzia anche la mostra veneziana – e arriva a scambiare la borsa valori delle sue opere con l’importanza e la capacità d’incidere sulla storia dell’arte. Baselitz oggi si meraviglia che quella scelta di capovolgere l’immagine non sia diventato un linguaggio comune ad altri artisti che da lui avrebbero potuto prendere ispirazione: un espediente che diventa un modello estetico generalizzato, confessò anni fa. Perché auspicava una evoluzione così poco credibile? Baselitz è un unicum; non sarà mai il creatore di una scuola. Eppure, mentre affermava questa idea che è piuttosto la manifestazione di una vanità, sapeva bene che una scelta così particolare, così poco spendibile da altri, era destinata a rimanere un suo segno distintivo. E infatti nei corsi e ricorsi di cicli pittorici senza vere grandi innovazioni espressive, Baselitz si è ritrovano negli ultimi decenni a ripetersi: il ciclo del 2018, proprio per la riduzione della tavolozza ricca e debordante degli anni d’oro e del secondo decennio di questo secolo, sia pure con una maggiore artificiosità e freddezza mentale (dalle Negatives Pictures in bianco e nero del 2004-2007 ad altri “negativi” dove torna il colore nel 2012), richiama una sorta di nebulosa spaziale, come il venire alla luce dalla notte cosmica di vere e proprie apparizioni “a testa in giù” (i toni, pur diversi, evocano i quasi monocromi di alcune xilografie di metà anni Sessanta, che testimoniano un rapporto coi maestri antichi).

Angeli o figure misteriose che sembrano stare sospesi sopra di noi, speculari alla nostra condizione gravitazionale. Trattandosi di un pittore colto (come si vede nei disegni fine anni Cinquanta ispirati dalla pittura del rinascimentale Giovanni di Paolo, dalle Madonne di Rosso Fiorentino e Pontormo, dal Beccafumi, ma prima da Leonardo e Raffaello, come anche dalle sculture lignee del secentesco Francesco Pianta), è normale che periodicamente si possano riscontrare evocazioni dei pittori del passato, quelli dell’espressionismo (Beckmann, Dix, Munch, Gerstl), ma anche l’elegante ductus pittorico di Bonnard. Baselitz è un divoratore di pittura. La coglie come un frutto da innestare nel suo linguaggio. Ultimamente, la sua pittura sta conoscendo una involuzione non tanto “manieristica” (manierista lo era per costituzione, già nel ciclo degli eroi che si legano allo strabismo estetico caro a Bonito Oliva), quanto propriamente accademica o accademizzante. Qualcosa che si osserva anche in un altro gigante della pittura come Anselm Kiefer.

Forse per riprendersi da questa “stasi mentale”, servirebbe uno scarto, uno slancio nuovo, un ultimo rovesciamento che riporti la pittura di Baselitz dentro le coordinate classiche della rappresentazione “retinica” (ma con l’esperienza di chi ha rotto gli schemi). Continuare a ripetere questa “rivoluzione” – in un’epoca che ha distrutto tutti i riferimenti a un canone visivo – potrebbe rivelarsi l’atto meno accademico possibile, per una pittura che ha già detto tutto ciò che poteva. Baselitz Academy: mai titolo fu più pertinente e al tempo stesso più involontariamente sacrificale a una logica che contrasta con la libertà di Baselitz nei momenti migliori. La sua opera incarna il principio dialettico hegeliano dell’Aufhebung: il negare per conservare; la trasformazione che eleva e riafferma.