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Brescia. Baldeweg, quando la luce generò l'architettura

Maurizio Cecchetti venerdì 18 settembre 2020

Juan Navarro Baldeweg, una parete con sei dipinti realizzati nel 2017

Juan Navarro Baldeweg, architetto spagnolo oggi ottantunenne, a cui il Museo di Santa Giulia dedica una mostra antologica curata da Pierre-Alain Croset, è per così dire un realista. Presa letteralmente questa parola significa tutto e il suo contrario: vi possono essere moltissime forme di realismo, anche estremamente diverse fra loro, e la questione si può dire che risalga già a Platone e Aristotele, riproponendosi fino all’epoca moderna con Cartesio e Pascal, più ancora con Galileo e Newton; una storia di massimi sistemi, anche etici, che ancora si differenzia nel discorso di Berkeley e poi di Wittgenstein sulla percezione, e prende forme molto distanti in pensatori come Husserl, Russell, Bergson, e, ultimamente, in Putnam e Searle. Fin qui la filosofia. Ma nell’arte?

In effetti, quella di Baldeweg è una poetica che gioca sui massimi sistemi, sui loci essenziali della realtà fisica: vuoto e pieno, peso e leggerezza, luce e ombra, e ritorna a noi in quello che Baldeweg, prendendo a esempio il suo modo di fare pittura, chiama «stratificazione», oppure «rappresentazione geologica». In questa stratificazione un certo realismo può essere l’opposto di un altro; uno può darsi come massima concretezza fisica, viceversa l’altro può rivelarsi come un parto della mente fino a diventare astratto. In Baldeweg queste due forme convivono, mi sembra. Perché una mostra a Brescia su questo architetto, personaggio di culto per alcuni ma non per tutti, artista sospeso fra il realismo della gravità dei corpi e il realismo della mente, in realtà, scenografo di soluzioni razionali ma anche paradossali? Tutto nasce dal fatto che a Baldeweg è stato affidato il nuovo allestimento del Capitolium dove verrà esposta la Vittoria alata, statua di epoca romana, dopo il restauro durato un paio d’anni.

Juan Navarro Baldeweg, una vista dell'opera «La Mesa» (La Tavola) - .

La mostra, dunque, è un omaggio all’architetto incaricato (fino al 5 aprile 2021, catalogo Skira) e, forse, un modo per renderlo più familiare ai bresciani e ad altri interessati. Torniamo al paradosso: per Baldeweg significa che una cupola può stare sospesa nel vuoto, come se «volasse» per dirla con le sue parole – il riferimento va a uno dei progetti più interessanti dell’architetto, il Palazzo del Congresso di Castilla-León a Salamanca, di cui nella cripta è esposta la maquette, assieme ad altri modellini che documentano i suoi progetti più importanti –; viceversa, un edificio che interviene su un’area storica, può elevarsi da una piattaforma che media con un’architettura preesistente – qui si parla dell’intervento di ristrutturazione e ampliamento della Biblioteca Hertziana di Roma –. I problemi che pongono queste due architetture sono apparentemente opposti: il primo caso si condensa nella domanda: “esiste realmente quella cupola”, la possiamo definire tale, oppure è soltanto un “coperchio” calato sopra lo spazio, come un controsoffitto? È frutto del pensiero strutturale, questa volta semisferica ribassata disegnata per cerchi concentrici ascendenti (che rimanda a un pensiero barocco, mentre l’articolazione dello spazio sottostante è pensato con la pulizia formale di un razionalista moderno: sintesi degna di chi abbia letto Baltasar Gracián), oppure quello che vediamo è anzitutto un gioco illusivo per via della luce che vince, come una sorta di energeia divina, la gravità della materia di cui la cupola è fatta?

In questo progetto di Baldeweg, senza la forza plastica della luce l’architettura non è niente. La luce scioglie l’architettura dalla sua valenza vitruviana, la ratio firmitatis, che giustifica l’edificio come opera costruttiva, ma la rende anche qualcosa di ulteriore rispetto alla utilitas e alla venustas. Qui, si direbbe, l’idea vitruviana che giustifica la componente costruttiva trova maggior complessità. Ma siamo oltre anche la stessa fisica galileana, siamo nei quanti di luce che proiettano l’architettura non nella quarta dimensione, ma in una diversa percezione del tempo.

Juan Navarro Baldeweg, interno del Palazzo del Congresso di Salamanca (vista del modellino) - .

Se, come alcuni pensano, anche fra gli stessi fisici, il tempo non è molto di più che una convenzione linguistica, perché se vogliamo pensarlo possiamo farlo soltanto in ragione di un mutamento, della modificazione di qualcosa (e qui dovremmo considerare come la renaissance del pensiero di Parmenide abbia determinato uno sviluppo nel modo stesso di concepire la realtà da parte della fisica contemporanea), allora si può vedere nella poetica di Baldeweg una via all’anabasi, ma con una chiara propensione ai paradossi della dimensione matematico-scientifica.

I due dadi d’oro che si reggono in equilibrio a partire da uno studio del baricentro col semplice ancoraggio del limite inferiore di uno a quello superiore dell’altro; il piccolo peso che tiene in stallo la ruota lungo un piano inclinato; il cerchio e l’otto-infinito in ottone che sembrano fluttuare sul vuoto; le cinque scatole che giocano sulla “materializzazione” della luce a partire dalla dialettica del nero e del bianco: siamo pur sempre dentro una fisica “meravigliosa”, sebbene molto fredda, che si trova perfettamente a suo agio nel postmoderno, ma in realtà sembra ripartire dall’incontro della fisica secentesca con gli esoterismi, anche astrali, che interessavano un erudito come il gesuita tedesco Athanasius Kircher.

Nella sala principale di Santa Giulia, Baldeweg ha allestito una tavola, La Mesa appunto, in legno di pino dell’Oregon, sulla quale ha organizzato trenta “oggetti” per lo più exempla formali dal valore fisico-matematico: sono sculture, ma anche idee, stati delle cose sulle quali agisce la gravità. Mi ricordano, in un ambito piuttosto lontano, la forzatura dei baricentri che Degas sperimentava nella scultura. Ma il francese metteva alla prova gli equilibri del corpo umano: quello delle ballerine o delle donne che si lavano, si asciugano, si stirano, si torcono e in certi momenti sembrano tendersi in posizioni “impossibili”. Si potrebbe pensare che un po’ più di scienza avrebbe consentito a Degas soluzioni meno irragionevoli, ma non era la fisica che lo interessava, lui voleva che la scultura negasse se stessa. Aspirava a una realtà che non era data in natura.

Non è questo il valore che emerge dall’opera di Baldeweg, al contrario egli interviene poeticamente sulla base degli stessi principi di natura. Ma l’arte non è manifestazione della verità, come pensava Heidegger. L’arte, diceva Degas a Valéry, è convenzione – diversa caso per caso –, ed è piena di preconcetti. Se la natura ha una propria “meccanicità”, l’arte si può permettere quegli slanci che, secondo Bergson, portano una rottura del continuum spazio-temporale e ci aprono una finestra sull’inaspettato, sulla libertà. A questo proposito, due opere della “tavola” di Baldeweg sembrano una rappresentazione contraddittoria della critica alla legge di gravità: il piano inclinato sul quale una ruota viene tenuta in equilibrio da un piccolo peso, pone una domanda esplicita che dice: «Com’è possibile che accada questo?»; l’altra opera, che mostra due pesi, uno grande che tiene sollevato un peso più piccolo posto al vertice di un’asta inclinata, afferma al contrario qualcosa di molto naturale: «Il grande governa il piccolo ». Il primo caso è una domanda sull’inverosimile, quindi una verità rovesciata o antifrastica; il secondo è una rappresentazione della verità di natura. Ed è questo che accade anche nell’addizione della Biblioteca Hertziana, dove il nuovo si accosta, con sapiente gioco razionale, al vecchio, ma la dissonanza fra le due parti è tale che sembrano luoghi separati e inconciliabili. Qui l’architetto ha vinto sull’esistente, ma il suo linguaggio ha contestato la storia privilegiando il moderno.