Agorà

Verso l'8 marzo. Santa Bakhita, l'attualità di una donna libera e anticonvenzionale

Lucia Bellaspiga mercoledì 6 marzo 2019

Fatou Kine Boye veste i panni di santa Giuseppina Bakhita nella fiction Rai del 2009 "Bakhita la santa africana"

Sabato 9 marzo a Schio si conclude il consueto mese di celebrazioni dedicate a santa Bakhita con la presentazione del libro di Roberto Italo Zanini Bakhita, il fascino di una donna libera (San Paolo, pagine 160, euro 16). L’appuntamento è alle 16,30 al Teatro delle madri Canossiane in via Fusinato 51. Con quella dell’autore sono previste le testimonianze di Prisca Ojok Auma e di Evelyn Carr. Il teatro è accanto al santuario dove riposano i resti della Santa. L’evento è organizzato dall’Associazione Bakhita Schio-Sudan e dalle Canossiane di Schio.

«La moglie dell’amico, vedendo noi moretti, se ne invogliò e chiese al marito perché non ne avesse condotta una anche per lei... Il console, per far piacere all’amico, mi regalò a loro». È forse questa la pagina più sconvolgente nell’avventurosa vita di Giuseppina Bakhita, che pure prima di allora aveva già subìto ogni genere di torture e umiliazioni: «mi regalò a loro», come fosse un souvenir dall’Africa, usata per appagare i capricci di una nobile veneziana. Accadeva al porto di Genova nel 1885, dove Bakhita – che nel 2000 sarà proclamata santa da papa Giovani Paolo II – giungeva migrante a 16 anni fuggendo dal Sudan al seguito del console italiano Callisto Legnani, l’uomo che l’ha acquistata ma anche salvata. Inizia presto il travaglio di Bakhita, ovvero “la Fortunata”, così chiamata per scherno dai negrieri, e assomiglia alle mille storie che oggi incontriamo nelle notti disperate delle nostre città o sulle rive dei nostri mari: a 7 anni viene rapita dai mercanti di esseri umani, a 10 è già al suo terzo passaggio di “proprietà”, schiava in Sudan di un generale turco dal quale subisce sevizie fisiche e morali (centinaia di tagli su tutto il corpo e il «torcimento del seno, come si fa con uno straccio per strizzarlo», racconterà lei stessa dettando le sue memorie alle consorelle canossiane).

A 13 anni fa di tutto per essere venduta al console italiano Legnani, uno dei due uomini che cambieranno la vita alla piccola “moretta” semianalfabeta, oggi una delle sante più venerate nel mondo, esempio concreto della forza con cui, tramite l’abbandono a Gesù, ogni catena diventa libertà e ogni donna può dichiarare a testa alta il suo no all’oppressione. Non a caso il giornalista di Avvenire Roberto Italo Zanini le dedica per la terza volta un libro, Bakhita, il fascino di una donna libera (San Paolo, pagine 160, euro 16,00) in uscita proprio in occasione dell’8 marzo, Giornata internazionale della donna. Santa Bakhita ne esce come figura di straordinaria attualità, non solo e non tanto perché incarna le eterne tragedie di tante donne dei nostri giorni, vendute, picchiate, sfruttate, usate, persino “affittate”, o “regalate” proprio come lei, ma perché la sua santità attrae un numero sempre maggiore di credenti e non credenti che si recano a Schio ( Vicenza), nella cella monastica in cui morì l’8 febbraio del 1947, per trovare le risposte che la vita non dà.

Zanini riavvolge il nastro della sua esistenza ed è evidente che nulla avvenne per caso, tutto fu provvidenziale, anche i negrieri, le torture e gli acquirenti, perché tutto concorse a fare della bambina rapita nel cuore dell’Africa una delle figure più luminose della Chiesa nel cuore del Veneto. Se fosse un romanzo apparirebbe inverosimile, troppo avventuroso, invece è realtà: «Fui davvero “Fortunata” – Zanini riporta le parole della stessa suor Bakhita –, il nuovo padrone era assai buono e prese a volermi bene. Non mi pareva vero di godere tanta pace e tranquillità». Ma in Sudan si impongono il fondamentalismo islamico filo-schiavista e la persecuzione dei cristiani (tuttora in corso), e il console lascia Karthum per l’Italia. La bella e giovane schiava ne ha sentito parlare come di un Paese libero e lo supplica di portarla laggiù. Legnani, l’amico veneziano Michieli, Bakhita e un altro bambino sudanese che il console ha riscattato fuggono attraverso il deserto e, come detto, arrivano in nave al porto di Genova, lo stesso da cui nel frattempo masse di italiani in povertà partono a loro volta su altre navi verso l’America.

“Regalata” da Legnani alla moglie di Michieli, secondo una mentalità oggi inaccettabile ma anche nella speranza di darle un futuro sicuro, Bakhita approda a Mirano, dove incontra il secondo buon Samaritano della sua vita, Illuminato Checchini, vero personaggio nel Veneto dell’epoca, grande cristiano, punto di riferimento delle masse rurali, che le dona il primo crocifisso, la accoglie in famiglia esattamente alla pari con i numerosi figli (lei nera in un’epoca in cui altri non se ne incontravano) e la contagia di un amore per Cristo che in Bakhita diventa evidente santità.

Si scorre come un romanzo, il libro di Zanini, che alle vicende di Bakhita alterna le testimonianze delle donne e degli uomini che oggi le devono la salvezza e la conversione del cuore. Bakhita, la schiava che era stata regalata, diventa dono: dono di libertà per noi, l’esempio concreto di un riscatto possibile a tutti. Colpisce e commuove la dignità con cui a 20 anni trova nella fede la fermezza per dire il primo “no” ai padroni che ne rivendicano la proprietà (la nobildonna Michieli per riaverla si rivolge alla giustizia) e seguire l’unico vero “ paròn”, come in dialetto veneto chiama il Signore. La vera libertà Bakhita la conquista perdonando tutti, perché in tutti riconosce dei benefattori, le pedine della Provvidenza: «Se incontrassi i negrieri che mi hanno rapita e quelli che mi hanno torturata – spiega – mi inginoccherei a baciare le loro mani, perché se non mi fossero accadute quelle cose non sarei ora cristiana e consacrata». Ha sempre pregato per loro, i veri schiavi, e anche oggi sa rompere le catene, anche le catene più invisibili, di chi si rivolge a lei, la “santa moretta”.