Agorà

Intervista. Baharier, leggere è interpretare

ALESSANDRO ZACCURI domenica 24 gennaio 2016
Haim Baharier non è uno scrittore prolifico e ne va fiero. Ma è anche un lettore prodigioso, qualità che da sola basterebbe a giustificare la scelta della Scuola per librai Umberto ed Elisabetta Mauri, che ha affidato a lui la lectio magistralis conclusiva dell’ormai imminente seminario di perfezionamento a Venezia. L’interessato, fedele al suo stile, minimizza: «Non sono un esperto di marketing – dice –, l’unico mio merito consiste nell’appartenere al popolo del Libro. E questa, per me, è una gioia profonda». Nato a Parigi nel 1947 da una coppia di ebrei polacchi sopravvissuti ad Auschwitz, Baharier vive a Milano, dove svolge l’attività di psicoanalista.  Vanta una certa esperienza nel commercio delle pietre preziose, si è laureato in matematica e non disdegna l’attività di formazione manageriale. Soprattutto è uno studioso dell’ermeneutica biblica, come dimostrano i suoi libri, da La Genesi spiegata a mia figlia (2006) a Le Dieci Parole (2011). Il più recente, La valigia quasi vuota( Garzanti, 2014), rende omaggio alla figura di Monsieur Chouchani, il misterioso e sapientissimo clochard parigino che influenzò, tra l’altro, il pensiero di Emmanuel Lévinas, uno dei maestri di Baharier. Amore del paradosso e appello all’umorismo restano una costante del suo modo di esprimersi. «C’è quella famosa battuta, non so se la conosce...», dice. Quale?«Quella per cui gli ebrei sono il popolo del Libro, ma il Libro non è stato ancora stampato. Nasconde una piccola verità, come sempre accade con un bon mot riuscito. L’espressione “popolo del Libro” è abbastanza recente, e si riferisce a un libro molto particolare. Nella tradizione ebraica la Torah è un rotolo di pergamena, vergato in orizzontale anziché in verticale». E questo che cosa comporta? «Che per leggerlo occorre far scorrere le colonne una dopo l’altra, svolgendo la pergamena da una parte e riavvolgendola dall’altra. Rivelando la parola e intanto nascondendola. Già questo è un insegnamento importante, se si presta la dovuta attenzione. Parliamo di un celarsi del senso che non ha nulla a che vedere con la smaterializzazione dei testi in un tablet. Dentro queste macchine le parole si nascondono veramente, tanto da comporre un libro falso: qualcosa di molto diverso rispetto a un falso libro». Sta dicendo che il libro deve conservare la sua fisicità? «Deve conservare, anzitutto, la sua funzione di testimonianza. Che si realizza anche nella memoria e nell’oralità. Il rotolo non è un libro facile da consultare, da qui la necessità di impararne i brani a memoria. Ma per l’ebreo la Bibbia è essenzialmente Mikra, ciò che scaturisce dalla lettura. Questo significa che ogni scrittura diventa parola vivente solo quando la si legge. La pienezza della comunicazione si verifica nel momento in cui una coscienza si rivolge a un’altra coscienza, aprendosi alla pluralità delle interpretazioni». È un processo infinito? «Uno strato si depone sopra l’altro, ogni commentatore sale sulle spalle del precedente per guardare più in là. Il paradigma dell’ermeneutica è fornito dalla Luna che cresce e decresce nel cielo. Come il rotolo che si svolge e riavvolge, ancora una volta. Il Talmud ci trasmette una disposizione che può apparire strana: è lecito rischiare la propria vita per salvare un libro da un incendio se in questo libro restano almeno 85 parole. Il numero non è scelto a caso, secondo l’interpretazione cabalistica l’85 corrisponde alla bocca. Si rischia la vita, insomma, per un libro che ci può ancora parlare. Allo stesso modo, in ebraico il valore numerico del termine “libro” è uguale a quello del termine “nome”: come nel nome si racchiude l’interiorità della persona, così nel libro si racchiude l’interiorità dell’autore e del lettore». Possono esserci maestri nella lettura? «Un buon maestro è come un padre, come una madre: non insegna imponendo la propria autorità, ma educa con il proprio comportamento. Nell’ebraismo l’insegnamento è la vocazione caratteristica della tribù sacerdotale, alla quale è demandato il compito di assumere un comportamento rituale in un ambiente apposito, secondo una precisa formulazione liturgica. Posso spiegarglielo con un esempio?». La ascolto. «Quando avevo cinque anni, mio padre mi portava spesso dall’unico maestro hassidico che vivesse allora a Parigi. Andavamo da lui il venerdì sera, entravo in casa del maestro e mio padre, ogni volta, mi aspettava fuori. Più tardi, quando gli chiesi perché facesse così, mi disse che mi portava da quell’uomo perché, guardandolo, imparassi come si fa a mangiare. Vale per tutto, anche per la lettura». Eppure anche un libro può essere letto in modo radicale, escludendo la pluralità delle interpretazioni. «Sì, è la deriva del fondamentalismo, con la quale ci stiamo misurando in modo tanto drammatico. La mia convinzione è che in questo momento rischiamo di morire proprio per carenza di interpretazione dell’altro.Eppure, prima di accapigliarsi per stabilire quale sia il vero islam, l’Occidente dovrebbe tornare ad analizzare le proprie fonti culturali, che per me sono costituite dalla Bibbia. Anche dal pensiero dei presocratici, almeno in parte, ma non dalla filosofia greca nel suo complesso. Spesso, in questi anni, mi sono trovato a commentare la Genesi davanti a centinaia di persone che mi seguivano affascinate. La Genesi è l’inizio di quel grande inizio che è la Bibbia ebraica. Questo dobbiamo fare: tornare all’inizio, alla radice».