Agorà

Intervista. Azuma, l’arte che risana

Giovanni Gazzaneo mercoledì 12 marzo 2014
«Un altare, un ambone, un portacero pasquale. Li ho realizzati per la chiesa rinascimentale di San Francesco a Locarno. Ho pensato al miracolo quando a me, non credente, è stato commissionato questo importante lavoro. Uscivo da una grave malattia: se vivo lo devo all’arte». Kengiro Azuma, che oggi compie ottantotto anni, sorride e i suoi occhi diventano feritoie che guardano lontano quando ricorda con gratitudine e gioia di fanciullo la sua ultima grande opera d’arte sacra, inaugurata nel dicembre 2012. «Dopo un difficile intervento chirurgico e mesi di pesanti cure vedevo davanti a me il buio. Invece arrivano quattro cattolici svizzeri con il loro parroco, don Matias Hungulu, e mi portano la luce. Mi chiedono di fare un progetto per il presbiterio della loro bella chiesa fondata nel 1316 e ricostruita nel Cinquecento. Non volevo accettare perché non mi sentivo preparato. Conosco bene lo scintoismo, non altrettanto il cristianesimo, anche se vivo in Italia da sessant’anni. I committenti mi hanno rassicurato: lei deve fare un’opera d’arte, noi l’aiuteremo a comprendere il significato liturgico. E così ho accettato». È umile, Azuma, e non si sofferma sul crocifisso alto tre metri commissionatogli direttamente da Paolo VI per i Musei Vaticani, o sulle sue opere presenti in importanti musei d’arte moderna, da Tokyo a Los Angeles, o sul premio Shijuhosho, la più alta onorificenza per le arti, ricevuto dall’imperatore del Giappone nel 1995. Azuma nasce a Yamagata, piccola città nel Centro-nord del Giappone, il 12 marzo 1926, secondo di sette figli. «A diciassette anni lasciai il liceo per entrare nell’Accademia aeronautica della Marina – dice –. Ho combattuto l’ultimo anno e mezzo di guerra come pilota. Alla fine decisi di diventare kamikaze, volevo immolarmi per la patria». Ma la pace arrivò prima della missione suicida. Tornato a casa Azuma era come morto. «Avevo perso tutto, avevo perso la fede: l’imperatore per me e i miei connazionali era davvero dio. La nostra sconfitta lo riduceva soltanto a un uomo. Senza fede moriva anche il mio spirito». Dopo nove mesi di grande sofferenza, una notte si lascia sfiorare dalla luce. «Sarebbe bello, mi dissi, essere un artista. Il mio desiderio era diventare scultore per riempire il vuoto che si era creato in me e indagare il senso del mistero che mi avvolge e mi penetra. Avevo ventidue anni. Mi iscrissi alla facoltà d’arte di Tokyo». Azuma si laurea e nel 1956, grazie a una borsa di studio, giunge a Milano per seguire i corsi all’Accademia di Brera. «Sarei dovuto restare un anno, ma conobbi Marino Marini e non lasciai più la città lombarda. Per quattordici anni fui assistente del grande scultore. È morto stringendomi la mano».Azuma è uomo fedele, agli uomini e ai luoghi. Il suo primo laboratorio milanese è ancora oggi il suo studio. «Come scultore ho cercato di imparare a rappresentare l’invisibile: l’anima, i pensieri, i ricordi. La mia arte è trasformare l’invisibile in qualcosa che si possa toccare, fatto di bronzo o marmo: come nel corpo, visibile e invisibile si fondono nella materia della scultura». E così attraverso il Mu, il vuoto, a partire dagli inizi degli anni Sessanta rilegge la contemporaneità, dai tagli di Fontana al segno di Hartung, perché «la forma è vuoto e il vuoto è forma». Sembra un assurdo, invece è un orizzonte che si apre: «Lo zen è un bicchiere. Ciò che conta è il contenuto, non il bicchiere in sé. Per essere zen bisogna essere come un bicchiere vuoto: pronto a ricevere». A partire dagli anni Ottanta Yu, il pieno, diventa l’altro polo della ricerca del maestro e tutto si gioca in questa diade. La ricerca dell’invisibile ha alimentato anche le opere per la chiesa di San Francesco e ha reso possibile un dialogo tra i linguaggi della modernità e una storia antica di sette secoli. Nel bronzo dell’altare e dell’ambone sono presenti buchi e tagli, memoria delle ferite impresse nella storia dell’edificio sacro (con la soppressione del convento francescano fu adibito a caserma e poi a magazzino del sale), ma anche la cifra dell’arte di Azuma. Quei tagli non richiamano un’assenza, bensì una domanda. «Da sessant’anni lavoro cercando di riempire il vuoto della mia anima». Azuma ricerca l’origine – che non è mito ma presenza – tracciando impronte d’invisibile nella materia, in quel gioco di bronzo e cielo che è l’essenza della sua arte.La sua prima commissione in ambito ecclesiale è sempre in Svizzera, per il convento francescano di Sion nel 1968 «Mi invitarono a realizzar le acquasantiere, una fontana per il giardino e un crocifisso a cui lavorai due anni, facendo tre bozzetti». Uno di questi fu poi scelto da Paolo VI per i Musei Vaticani: realizzato in bronzo sembra risolversi in un abbraccio e fin da allora la sua arte diventa il luogo dell’incontro, dove gli opposti trovano la loro sintesi tra arcaico e modernità, tra Oriente e Occidente: le forme classiche si aprono, le linee cercano la purezza in una tensione mai risolta verso l’essenziale. Nella sua ricerca dell’origine il crinale resta quello tra visibile e invisibile.«Ho bisogno di vivere distante dal mio Paese per essere me stesso: solo in questa lontananza emerge nitida la mia sensibilità giapponese. Mantenendo la distanza custodisco la mia fantasia e il mio sogno». Canta la vita a partire dalle forme più semplici. «Molte mie sculture riprendono la forma della goccia d’acqua. Amo i giorni di pioggia: i colori della natura cambiano completamente, nasce un concerto di suoni, gli animali si muovono in modo diverso.La goccia quando si stacca da una gronda o da una foglia assume una forma bellissima, perfettamente bilanciata tra la sfericità della gravità e la parte alta che si allunga verso il cielo. Eppure questo stato è tanto rapido da risultare invisibile all’occhio umano. In un attimo nasce e in un attimo svanisce. Così è la nostra vita. La goccia cade a terra, viene assorbita, evapora, sale verso cielo, si condensa e ritorna goccia: il ciclo della vita. Quello che noi percepiamo di una goccia d’acqua che precipita è la parte invisibile: il suono. Quel suono contiene l’eterno».