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URBANISTICA. Augé, rammendare la metropoli

Marc Augé lunedì 3 dicembre 2012
La città non smette di espandersi. La maggioranza della popolazione mondiale vive in città e la tendenza è irreversibile. Il fenomeno dell’urbanizzazione generalizzata corrisponde più o meno a quello che chiamiamo globalizzazione per designare la diffusione generalizzata del mercato, l’interdipendenza economica e finanziaria, l’estensione delle reti di circolazione e lo sviluppo dei mezzi di comunicazione elettronici. Da questo punto di vista, si potrebbe dire che il mondo è come un’immensa città. Il "mondo città", come ho proposto di chiamarlo, è caratterizzato dalla mobilità e dalla standardizzazione. Sotto un altro aspetto, le grandi metropoli si espandono e vi si trova ogni diversità (etnica, religiosa, sociale, economica), ma anche tutte le divisioni del mondo. Così si può opporre la "città mondo", le sue divisioni, i suoi punti fermi e i suoi contrasti, al "mondo città", che ne costituisce il contesto globale e che appone in maniera spettacolare il suo marchio estetico e funzionale su alcuni punti chiave del paesaggio urbano: grattacieli, aeroporti, centri commerciali o parchi di divertimento. Più la grande città si espande, più essa si "decentra". I centri storici diventano musei visitati da turisti stranieri e luoghi di consumi di ogni genere, dove i prezzi sono elevati e i residenti sono sempre di più una popolazione agiata, spesso di origine straniera. L’attività produttiva e talvolta culturale si sposta extra moenia (al di fuori delle mura, dei confini della città). I trasporti sono il problema principale dell’agglomerato urbano: le distanze tra l’abitazione e il luogo di lavoro sono spesso considerevoli. Il tessuto urbano si espande lungo le arterie di circolazione, i fiumi e le coste. In Europa le periferie urbane si costeggiano, si uniscono, si confondono, e può nascere la sensazione che, con la diffusione generalizzata dell’"urbano", stiamo perdendo la città. Il decentramento delle città (le cui forze vitali si spostano extra moenia), delle abitazioni (in cui il fulcro dell’intimità è collegato con l’esterno da televisione e Internet) e anche dell’individuo stesso (incessantemente portato all’esterno dai suoi strumenti elettronici), contribuiscono fortemente a questa conquista dello spazio che per molti paradossalmente si avvicina a una perdita di possesso.
Nel mondo globale la risposta si impone in termini di spazio: ripensare il locale. Malgrado le illusioni diffuse dalle tecnologie della comunicazione, dalla televisione a Internet, viviamo nel luogo in cui viviamo. L’ubiquità e l’istantaneità restano metafore. Rispetto ai mezzi di comunicazione, la cosa importante è prenderli per quello che sono: mezzi adatti a facilitare la vita, ma non a sostituirla. Da questo punto di vista, il compito da portare a termine è immenso. Si tratta di evitare che la sovrabbondanza di immagini e di messaggi conduca a nuove forme di isolamento. Per frenare questa deriva, già osservabile, le soluzioni saranno necessariamente spaziali, locali e, per dirla tutta, politiche nel senso ampio del termine. Come conciliare nello spazio urbano il senso del luogo e la libertà del non-luogo? È da considerare l’idea di ripensare la città nel suo insieme e l’alloggio nei suoi dettagli? Una città non è un arcipelago, l’illusione creata da Le Corbusier di una vita centrata sull’alloggio e l’unità di abitazione collettiva ha portato ai casermoni a schiera delle nostre banlieues (le periferie dei grandi agglomerati urbani francesi), abbandonati abbastanza in fretta dai negozi e dai servizi che dovevano renderli estremamente vivibili. È stata trascurata la necessità della relazione sociale e del contatto con l’esterno; è proprio lì che puntano a modo loro i giovani delle banlieues, quando, per esempio nell’agglomerato parigino, si spostano regolarmente dalle loro città satellite verso i quartieri che sono al tempo stesso il cuore della città storica e i simboli della società del consumo: gli Champs Élysées o il quartiere di Châtelet-Les Halles. Nelle città reali, che cosa è in grado di evocare qualcosa di ciò che potremmo considerare come la città ideale? Mi vengono in mente due esempi. Certamente li idealizzo, ma è proprio di questo che si tratta: trovare delle tracce di ideale. Il primo esempio, di gran lunga il più convincente, è quello delle città di media grandezza dell’Italia settentrionale, come Parma o Modena. Nel centro di queste città la vita è intensa, la pubblica piazza resta un luogo di incontro, si gira in bicicletta, si costeggiano con naturalezza i luoghi della storia. Il visitatore di passaggio ha la sensazione di poter scivolare nell’intimità di questo mondo piacevole senza farsi notare, di stabilire relazioni senza esserne costretto e di passare da una città all’altra per il semplice piacere degli occhi. Ma, si obietterà, bisogna davvero avere gli occhi chiusi per ignorare tutto ciò che contrasta con questa visione da turista miope: la povertà, l’immigrazione, gli atteggiamenti di rifiuto, ecc. Ancora una volta, mi soffermo sull’ideale, che esige, in effetti, una sorta di miopia. Un altro esempio: la vita di quartiere a Parigi. Potrebbero essere citati ben altri esempi e si sa che nelle più grandi metropoli del mondo (Città del Messico, Chicago) sono molto attive alcune forme di vita sociale. La vita di quartiere è quella che si può osservare per strada, presso i commercianti, nei caffè. A Parigi, dove da diversi anni la vita è più difficile, è a livello micro che si vedono legami fragili resistere al disincanto: le conversazioni al bancone del bar, i convenevoli tra una persona anziana e la giovane cassiera del supermercato, i pettegolezzi dal droghiere tunisino: altrettante modeste forme di resistenza all’isolamento che sembrerebbero provare che l’esclusione, il ripiego su se stessi e il rifiuto dell’immaginazione non sono una fatalità.
Ogni programma d’insieme e ogni progetto dettagliato riguardanti la città dovrebbero associare vari tipi di riflessione: una riflessione da urbanista sulle frontiere e gli equilibri interni al corpo della città; una riflessione da architetto sulle continuità e le rotture di stile; una riflessione antropologica sull’abitazione odierna, che deve conciliare la necessità di aperture multiple verso l’esterno e il bisogno d’intimità privata. Si tratta di una vasta opera di "rammendo" (nel senso che una volta sarte e rammendatrici rammendavano i vestiti strappati e le calze smagliate). Si dovrebbe, nella misura del possibile, ritracciare frontiere tra i luoghi, tra l’urbano e il rurale, tra il centro e le periferie. Frontiere, vale a dire soglie, passaggi, porte ufficiali, per far saltare le barriere invisibili dell’esclusione implicita. Bisogna ridare la parola al paesaggio. Ci si potrebbe assegnare, a lungo termine, il compito di rimodellare un paesaggio urbano moderno, nel senso inteso da Charles Baudelaire, in cui gli stili e le epoche si mescolerebbero consapevolmente come le classi sociali. In Francia i Comuni e i quartieri delle città più grandi hanno l’obbligo di una certa percentuale di case popolari, ma, oltre al fatto che questo obbligo è spesso aggirato, accade sovente che lo stile adottato e i materiali utilizzati producano la stigmatizzazione di chi vi abita. Un ulteriore sforzo: l’ideale dovrebbe ritrovarsi nella disposizione interna degli appartamenti più modesti, dove dovrebbero combinarsi in piccola scala le tre dimensioni essenziali della vita umana: il privato individuale, eventualmente il pubblico (all’occorrenza familiare) e la relazione con l’esterno. Così formulato, l’ideale è utopistico e non è chiaramente di sola competenza dell’architetto. Ma la materia dell’ideale o dell’utopia è già presente. Forse un giorno il pianeta si presenterà come un insieme urbano unico e compiuto. Noi oggi iniziamo a percepirlo così, dal momento in cui prestiamo attenzione alle opere di qualche grande nome dell’architettura che si fanno eco da un capo all’altro del pianeta o allo sviluppo dei mezzi di comunicazione elettronica che definiscono la "metacittà virtuale" di Paul Virilio. Bisogna sperare che quel giorno avremo trovato il mezzo per fornire a questo immenso mondo-città l’energia necessaria al suo funzionamento armonioso.
I nomi dei grandi architetti sono conosciuti nel mondo quasi quanto quelli dei grandi calciatori. L’architettura gode oggi di un statuto del tutto particolare. Si minaccia di ridurre di qualche metro il grattacielo che Jean Nouvel sta per costruire a Manhattan? La stampa si agita. Una grande azienda vinicola di Bordeaux vuole accrescere il prestigio dei suoi vini? Affida al costruttore della cattedrale di Evry, Mario Botta, il compito di disegnare le sue nuove cantine. Un nuovo museo apre le sue porte a Bilbao o a Chicago? Le folle si precipitano per scoprirlo, attratte più dall’edificio che da quello che contiene. Gli architetti più in vista sono celebrati nel mondo intero e alcune città di media importanza cercano di ottenere che uno di essi costruisca almeno una sua opera sul loro territorio per accedere alla dignità planetaria e turistica. Ci si può interrogare sulle ragioni e sulle conseguenze di questa infatuazione. Si può notare, in primo luogo, che la grande architettura ha sempre espresso e ratificato i rapporti di potere nella società. Le grandi imprese che si installano nei grattacieli più recenti lo fanno prima di tutto per la loro immagine. Lo fanno anche per offrire buone condizioni di lavoro ai loro impiegati. Ma queste stesse condizioni si legano all’immagine. Gli spazi senza pareti divisorie (gli open space) sono meno spazi liberi, in cui lo sguardo porta fino all’orizzonte attraverso immense vetrate, che spazi dove ciascuno è prigioniero dello sguardo altrui, anche perché lo spazio dell’impresa è rigorosamente gerarchizzato. Lo testimonia, a contrario, il fatto che i responsabili più importanti dispongono di uffici chiusi. Quanto ai musei, concepiti essi stessi come opere d’arte, tendono a relegare in secondo piano gli oggetti, le collezioni e le mostre che vi trovano spazio. I turisti si preoccupano davvero di ciò che vedranno all’interno del museo di Bilbao? Oggi il nuovo museo non è solamente l’abitacolo concepito per mettere in mostra oggetti artistici o storici, ma è il clou dell’esposizione. Nel momento in cui si consultano i progetti di gruppi di lavoro concorrenti, ci si rende subito conto che, al di là degli argomenti tecnici che corrispondono in modo preciso ai disciplinari di incarico, questi tendono a sviluppare discorsi necessariamente eccessivi sul significato dell’edificio che intendono costruire. È inevitabile: immaginate che si chieda a romanzieri o saggisti di preparare essi stessi la critica del loro libro per ottenere l’autorizzazione a scriverlo: che tesori d’eloquenza ostenterebbero! Gli architetti sono in questa situazione e non bisogna stupirsi che la metafora assilli pericolosamente i loro progetti. Di fatto, nel momento stesso in cui il mondo diventa un’immensa città, in cui la forma del pianeta cambia insieme a quella della città, il potere demiurgico dell’architetto è un segno dei tempi. La sua retorica, poiché si ostenta in risposte che hanno come scopo quello di conquistare mercati, assomiglia spesso a un plagio dell’ideologia degli imprenditori, ma con questo essa stessa esprime la storia in cammino e ne è anche l’espressione più spettacolare e talvolta più sontuosa.